Di fronte alla persecuzione dei cristiani, il Papa si dice sgomento, chiede una “soluzione internazionale”, manda un inviato. La diplomazia vaticana trova eco in quella dell’Italia, presidente di turno del Consiglio dell’Ue e di altri Paesi europei: Gran Bretagna e Francia sono tentate da esercizi muscolari, stile Usa, e la Mogherini non dice no a una richiesta curda di aiuti militari. Dopo il viceministro italiano Pistelli, il ministro degli Esteri francese Juppé vola a Baghdad e poi a Erbil, nel Kurdistan, per sovrintendere agli aiuti umanitari e confermare la promessa di accoglienza in Francia per chi fugge dall’integralismo qaedista.
Gli Usa proseguono gli attacchi contro le milizie jihadiste. Ma il presidente Obama inanella messaggi contraddittori: “Non trascinerò l’America in una nuova guerra in Iraq”. Il problema, per gli Usa come per l’Europa, è la mancanza di partner locali presentabili: combattere il Califfato, espressione estrema dell’orgoglio sunnita in una regione sciita, vuol dire appoggiare in Iraq il governo del premier al-Malaki, simbolo di gestione settaria del potere, e in Siria il regime alauita del presidente al-Assad, osteggiato da tutto l’Occidente nei 40 mesi di guerra civile.
Nel contesto regionale, combattere il Califfato significa fare un favore al regime di Teheran, gran protettore dell’Islam sciita, e, quindi, indisporre gli alleati di sempre, i sauditi e gli emiri. Il sussulto integralista dell’avanzata jihadista è contagioso, inasprisce la resistenza a Gaza, infiamma il conflitto in Libia e arriva ai confini dell’Islam, dalla Somalia alla Nigeria. Intervenire per spegnere sul nascere l’incendio integralista sarebbe stato meglio: ora le milizie jihadiste hanno consolidato le loro posizioni.
La mobilitazione istantanea di questi giorni può alimentare nel mondo arabo la diffidenza per l’Occidente che si muove solo quando gli toccano i cristiani. Come se l’azione umanitaria fosse una questione di religione.
Il Fatto Quotidiano, 11 Agosto 2014