Una Camera quasi monopolizzata dal partito che uscirà vincitore dalle elezioni rischia di controllare il processo legislativo, l’elezione del Presidente della Repubblica e, di conseguenza, 10 giudici della Corte Costituzionale su 15 e il Csm. La maggioranza guidata da Matteo Renzi ha strappato al Senato il primo sì al disegno di legge 1429 sulla riforma dell’assemblea di Palazzo Madama e del Titolo V della Costituzione. Modifiche al testo (ad esempio la reintroduzione di un emendamento con l’inserimento degli Eurodeputati tra gli elettori del Capo dello Stato) sono state annunciate in vista dell’approdo a Montecitorio e sono sempre possibili in uno dei tre passaggi parlamentari che mancano. Ma erano state promesse anche prima dell’arrivo del ddl nell’Aula i Palazzo Madama e non si sono viste: per questo in molti si domandano se quello licenziato dal Senato non sia il primo passo concreto verso la nascita di quella “democrazia autoritaria” o “democrazia d’investitura” di cui numerosi costituzionalisti hanno denunciato i pericoli nelle ultime settimane (firma qui la petizione del Fatto Quotidiano). Per il premier sono “i soliti salotti, fatti da persone che firmano appelli senza averli letti“.
La fine del bicameralismo perfetto, obiettivo delle riforme su cui il premer Renzi si gioca il mandato, passa attraverso i due principali obiettivi della riforma del Senato: la non elettività dei membri della futura assemblea di Palazzo Madama e la riduzione delle sue funzioni costituzionali. La fine del Senato elettivo è certamente la novità più dirompente del ddl: la futura assemblea sarà composta da 95 membri rappresentativi delle istituzioni territoriali e 5 di nomina presidenziale. Saranno i Consigli regionali e i Consigli delle Province autonome di Trento e Bolzano a scegliere i senatori, con metodo proporzionale, fra i propri componenti. Non solo sarà composto da nominati: il nuovo Senato sarà anche depotenziato nelle sue funzioni. Se il sì accordato da Palazzo Madama alla riforma firmata da Maria Elena Boschi fosse stato il quarto e definitivo, oggi la competenza legislativa ordinaria sarebbe appannaggio quasi esclusivo della sola Camera dei deputati. I senatori-consiglieri-sindaci, infatti, non voterebbero più la fiducia al governo né la Finanziaria, ma parteciperebbero alla legislazione in materia di enti locali, Unione Europea, salute e famiglia. In alcuni casi potrebbero avanzare rilievi sulle leggi in discussione alla Camera, ma Montecitorio potrebbe decidere di non accoglierli: basterà un voto a maggioranza semplice (e, su certe materie, a maggioranza assoluta).
L’abolizione del bicameralismo perfetto, è il parere di molti costituzionalisti, è auspicabile perché mette l’Italia sullo stesso livello della grande maggioranza dei Paesi democratici. Gli stessi giuristi, tuttavia, mettono in guardia da un pericolo incombente. Dal mix tra l’Italicum frutto del patto del Nazareno con Silvio Berlusconi (che garantisce un premio di maggioranza del 15% a chi supera la soglia del 37% dei voti) e la riforma della Carta rischia di venir fuori uno squilibrio costituzionale: una Camera composta da una classe di nominati espressione dei partiti maggiori e un Senato depotenziato e formato da non eletti eleggeranno un Presidente della Repubblica che nei fatti verrà scelto dalla maggioranza politica guidata dal capo del governo e del primo partito: con il 25% dei voti si può andare al ballottaggio e conquistare 340 seggi (55%) e a quel punto eleggere quasi da soli un capo dello Stato fedele.
Le conseguenze dello squilibrio si riverbereranno a cascata su altri livelli istituzionali. Poiché l’inquilino del Colle sarà diretta espressione della maggioranza di governo (nei primi 3 scrutini l’elezione avverrà con maggioranza dei 2/3 dell’aula, dal quarto serviranno i 3/5, mentre dopo l’8° basterà la maggioranza assoluta), quest’ultimo finirà per avere il controllo su 10 dei 15 giudici della Corte Costituzionale, ovvero il collegio di magistrati che ha il delicatissimo compito di valutare la costituzionalità delle leggi (e bocciarle in caso di incostituzionalità) e deliberare nei casi di conflitto tra i poteri dello Stato: l’esecutivo rischierebbe cioè di esercitare un potere di controllo e di indirizzo sui 5 giudici nominati dal Parlamento e i 5 indicati dal Capo dello Stato. Il quale, essendone il presidente, finirebbe per estendere il controllo del governo sul Consiglio Superiore della Magistratura, organo di rilievo costituzionale in quanto previsto dall’articolo 104 della Carta.
La strada è tracciata? No, per ora è soltanto indicata, perché il testo potrà essere modificato nei tre prossimi passaggi parlamentari. Il governo lo ha già annunciato. Ma la stessa previsione era stata fatta anche prima che il testo approdasse in Aula al Senato. Sulla questione dell’immunità, ad esempio: il 2 luglio, giorno in cui la Commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama licenziò l’emendamento dei relatori Finocchiaro e Boschi che reintroduceva lo scudo per i membri della futura assemblea, il ministro delle Riforme assicurava a chi chiedeva al governo di fare un passo indietro sul tema: “Tutto è sempre possibile in Aula”. Ma l’immunità è rimasta al proprio posto. In ogni caso non sarà facile. Ora il ddl 1429 andrà a Montecitorio, dove i numeri sono dalla parte del governo e della maggioranza, che con tutta probabilità imporranno solo minime modifiche al testo. Dopo l’approvazione, il ddl tornerà a Corso Rinascimento, dove i sentori potranno proporre emendamenti e approvare modifiche solo agli articoli cambiati alla Camera. La possibilità di intervento da parte del Senato, che tanto ha fatto penare la maggioranza nel primo passaggio, risulterà molto ridotta.