Abbiamo riflettuto sulla parola “legalità” ma un’altra parola è importante è “spazio”.
Ci accusano di esserci appropriati di uno spazio e questa è un’altra ipocrisia. Fin dall’inizio dell’occupazione il teatro Valle è stato governato da un’assemblea, l’ormai famosa “plenaria del lunedì sera” a cui chiunque fosse interessato alla cura e al governo del teatro ha potuto, può e speriamo potrà ancora partecipare. La composizione di quest’assemblea è cambiata nel tempo e continuerà a cambiare. E il teatro è cambiato con l’assemblea. Man mano si sono aggiunte nuove persone e altre sono andate via. Agli artisti si sono aggiunti prima economisti, poi giuristi, poi man mano cittadini interessati al loro teatro. La tenuta dell’assemblea è stata impressionante. Praticamente ogni lunedì per tre anni si è tenuta un’assemblea, un’assemblea dove non si vota ma si applica il metodo del consenso, ovvero le idee vengono migliorate, l’intelligenza collettiva viene innescata, non ci si divide ma si fanno evolvere le idee, che fioriscono.
E abbiamo sempre detto che il teatro non è nostro, la lotta sì.
Questi principi sono il frutto di percorsi, elaborazioni e discussioni fatte insieme fuori e dentro il Teatro Valle in questi tre anni e sono una ricchezza inestimabile perché vengono dalle idee e dall’entusiasmo di migliaia di artisti e cittadini.
La Fondazione è lo strumento dove abbiamo provato a dare formalità a questo processo informale e libero che ha generato questi 3 anni di grande sperimentazione e che ha creato le condizioni per rendere così forte questo progetto di innovazione artistica e gestionale.
E’ luogo comune che gli artisti debbano essere “lasciati liberi da pensieri”, che non debbano pensare troppo a pensieri pratici, che gli “artisti” siano persone strane, un po’ staccate dal mondo. Questi tre anni hanno dimostrato che questi due aspetti, divisi in una logica funzionalistica novecentesca, sono in realtà fortemente connessi.
L’esperienza del Teatro Valle dimostra che forse sono proprio certi cortocircuiti artistico-gestionali quelli che hanno nutrito la ricchezza di questa esperienza.
Così si inizia anche a spostare il problema del finanziamento alla cultura su un altro piano, sul piano di un altro modello di gestione dove sono gli artisti stessi e i cittadini a prendersi cura e a produrre la loro cultura, non permettendo che la cultura rimanga identificata solo con eventi preconfezionati o come centri storici gentrificati e morti dove pascolano solo i turisti. E’ proprio il modello del politico che da i soldi o “concede” spazi agli artisti che lo riempiono di contenuti ad essere non solo obsoleto ma anche non più economicamente sostenibile. Il cosiddetto “autogoverno” – ovvero il cittadino che in prima persona si prende la responsabilità di ciò che è suo – non è solo un allargamento esponenziale dei diritti ma può diventare anche una solida alternativa all’assistenzialismo.