Ho incontrato la vita di questa donna tutta concentrata in un post. In più di uno. Così non ho smesso più di aspettarla la vita che mi raccontava in poche righe, tutte le volte. Accadeva sui social network, su facebook; ed ecco cos’è facebook anche, una tale enorme opportunità di intercettare certi talenti che altrimenti mi sarebbero sfuggiti, sarebbero rimasti silenziosi o peggio anonimi.
Allora mi sono detta: questa donna è una sconosciuta, eppur è ingiusto perché lei riferisce le cose e il dolore del mondo con la mano della scrittrice. Si chiama Letizia Di Martino, vive a Ragusa. Ho letto alcune sue poesie, pubblicate con un piccolo editore, ma non è da lì che è arrivata una specie di folgorazione (non amo la poesia contemporanea, piuttosto la conosco male); la folgorazione è arrivata da quei piccoli post di cui vi dicevo sopra in cui Letizia racconta la sua vita, la feritoia da cui affiora – a tratti sofferente, a tratti nutrito di gaudio – il sud bianco e polveroso di mulattiere sconosciute, quel sud che esiste appena, che predilige la memoria, la malinconia o le immense tele di Piero Guccione.
Leggo la vita di Letizia, a brani, recitata come granuli di una corona di sommesse preghiere: “Il 10 Agosto mangiavo una torta di bianca panna messinese. Dopo un lungo pranzo pieno di profumi. Poi, a letto, i cuscini di lana sudati, il sonno pomeridiano disturbato dal caldo, la costa calabra bianca, le navi veloci che dondolavano molli, le onde color del vino. Ed era estate”. E in quell’interno Letizia mi ha già mostrato ogni dettaglio, evocato un tempo preciso, le nostalgie, le attese, i silenzi risentiti, o quel che c’era prima. In quell’interno c’era già una sequenza implicita, un passato che si poteva immaginare, talmente chiaro, pur non essendo mai trascorso. Le cose che non accadono sfuggono, non a Letizia, i suoi quadri le contengono tutte. I post diventano indizi. “Stasera pensavo a certe visite che facevamo nei pomeriggi di luglio. In villini di campagna col mare in fondo. Era il tramonto e le mucche tornavano dal pascolo. I cani abbaiavano forte. Un cielo chiaro. Ci offrivano il “bianco mangiare” di mandorle, adagiato su foglie di limone. Era buono e insapore al tempo stesso. Lo facevano ogni pomeriggio. Le signore avevano al petto ampi, spille con fili di gelsomino intrecciato. Il fieno nei covoni ed il silenzio. Veniva una gran fame. Si faceva sera molto piano. Con stelle lontane e luminose. E i profumi salivano sui terrazzi antichi. Le tende si muovevano alla brezza che veniva dal mare distante. Parlavamo a bassa voce, nel dialetto siciliano. Poi si accendevano le luci nelle stanze. E tornavamo a casa”.
E noi abbiamo visto e capito e annuito con lei, respirato con Letizia lo stesso vento leggero, l’aria del gelsomino, udito i barbagianni sugli anfratti. Sarebbe molto poco e abbastanza immeritato, a onor del vero, inchiodare lo status di questa donna come un’autrice sconosciuta; piuttosto scrittrice delicata, capace di cospargere di mestizia e levità il mondo degli altri, non so se il suo. Ma ho letto un pensiero di un’altra grande scrittrice, lei conosciuta però al grande pubblico, che è Grazia Verasani, diceva all’incirca: un artista di solito è balsamo per gli altri, quasi mai per se stesso. Ecco vi inviterei a leggere i post di Letizia Di Martino, su facebook, dove è possibile (sì è così) incontrare ancora il senso ieratico della parola che salva.