Qualcuno della mia età, ma anche più giovane, ricorderà l’entusiasmo con cui si salutò il ritrovamento del petrolio nel Mare del Nord. Il primo giacimento fu scoperto nel 1969 e questo sembrava aprire rosei orizzonti oltre che alla Norvegia, alla Gran Bretagna, che del resto era pur sempre stata la prima grande potenza industriale.
Il governo Cameron apre al fracking perché si teme per la minor produttività dei giacimenti del Mare del Nord, e si vuole comunque puntare ad una maggiore indipendenza energetica. La decisione è stata assunta dal governo il 28 luglio scorso, ed a farne le spese potrebbero essere anche le aree protette del paese, visto che basterebbe una relazione completa e dettagliata da parte delle imprese energetiche per poter ottenere i permessi.
E così anche la Gran Bretagna con il suo governo conservatore si adegua alla politica già massicciamente adottata dagli Stati Uniti con il loro governo progressista. Tutto il mondo è paese quando si tratta di cercare di mantenere gli attuali livelli di consumo e di sfruttamento dell’orbe terracqueo.
Nel frattempo, sempre sul suolo britannico, si è creato un cartello di associazioni ambientaliste che ha dato vita alla coalizione “Wildlife and countryside groups”, la quale evidenzia gli enormi rischi per il paesaggio, per il consumo di acqua necessaria alle operazioni di fratturazione, per la fauna. Alle voci delle associazioni si unisce quella di Greenpeace, da sempre contraria al fracking.
D’altra parte, un sondaggio voluto dal governo all’indomani della decisione, testimonierebbe che il 57% dei sudditi sarebbe favorevole a farsi perforare il suolo. E magari, perché no, anche ad avere qualche scossa tellurica, fino ad oggi pressoché sconosciuta nella terra di Albione.