Un concorso di più circostanze e molti errori. E’ questo secondo Gabriele Iacovino, responsabile analisti del Ce.S.I. (Centro Studi Internazionali), il quadro in cui prendono forma le conquista territoriali dell’Isis in Iraq, e i successivi raid americani. Per Iacovino gli americani hanno accelerato il ritiro e mancato quasi tutti gli obiettivi strategici; ma una buona parte di responsabilità spetta allo sciita Nuri al Maliki (che ha rassegnato le dimissioni) e alle sue politiche autoritarie e personalistiche. Una soluzione, in ogni modo, verrà non dai raid aerei ma dalla capacità di inclusione politica e sociale dei sunniti nel prossimo governo; e, all’esterno, dal riconoscimento che l’Iran può giocare un ruolo importante nel processo di pace.
Quanto gli eventi di questi giorni sono figli del ritiro delle truppe americane, deciso da Obama e concluso nel 2011?
Il ritiro del 2011 è stato una scelta soprattutto politica. Obama ha fatto campagna nel 2008 mettendo al centro della sua politica il ritiro dall’Iraq e poi ha tenuto fede a quella promessa, nonostante i suoi consiglieri militari e strategici lo consigliassero in modo diverso e chiedessero una strategia per tappe. Questo ha di fatto indebolito strutture politiche e militari già di per sé molto precarie. All’errore americano, va aggiunta la totale incapacità di portare avanti la ricostruzione da parte delle autorità irachene. L’ex primo ministro al Maliki ha rifiutato qualsiasi accordo che garantisse una presenza americana e poi, almeno dal 2010, ha condotto politiche settarie che hanno spaccato il Paese, non soltanto tra sciiti e sunniti, ma anche all’interno del fronte sciita che lo sosteneva. La sua gestione è stata personalistica, si è persino creato un proprio esercito che ha fatto il bello e il cattivo tempo all’interno della zona verde d Bagdad.
Noi parliamo di quanto il ritiro americano del 2011 influenzi gli eventi di questi giorni. Forse dovremmo chiederci come otto anni di occupazione nutrono l’instabilità attuale. Lei cosa ne pensa?
Guardi, volendo forzare il concetto, si potrebbe dire che gli americani in Iraq ci hanno sempre capito molto poco. Tutti i loro passi, a partire dalla caduta di Saddam Hussein, sono stati poco collegati alla realtà del Paese. Quando invece gli Stati Uniti sono riusciti a portare avanti un’azione comune con le popolazioni locali, per esempio la collaborazione con i Consigli del Risveglio sunniti e le comunità tribali, la situazione è subito migliorata. Il problema è che queste iniziative sono state sporadiche e l’autoritarismo di al Maliki le ha alla fine bloccate.
Negli Usa ambienti politici e di stampa mettono però in discussione le strategie dell’amministrazione in Iraq, prima dell’attuale intervento. Per esempio, com’è stato possibile arrivare a una simile clamorosa sottovalutazione della forza dell’Isis?
Per fare attività di intelligence bisogna essere presenti sul territorio. E tutti sanno che dopo il 2011 la presenza militare americana in Iraq, fuori Bagdad ed Erbil, è stata veramente ridotta. Il giorno dopo il ritiro dell’ultimo soldato gli americani hanno in qualche modo lasciato l’Iraq a se stesso. Di fatto, gli americani non uscivano quasi dall’ambasciata di Bagdad. Come sarebbe stato possibile raccogliere vera intelligence sull’Isis?
Lei è stato sorpreso dalla velocità dell’avanzata dell’Isis?
Chi dice di non essere stato sorpreso non è in buona fede. L’Isis colpisce non tanto per la sua forza militare, ma perché per la prima volta nella storia del jihadismo mondiale siamo di fronte a un gruppo che non è solo un gruppo ideologico e logistico, come poteva essere la prima Al Qaeda, ma è radicato sul territorio, transfrontaliero, presente cioè in Iraq e Siria. Amministra i territori conquistati, paga gli stipendi, si occupa della gestione quotidiana di scuole, ospedali, giustizia. E’ capace di combattere su più fronti, in un’area che oggi va da Aleppo sino alle porte di Bagdad, e contro nemici diversi. Ha una forza finanziaria incredibile, sconosciuta persino all’Al Qaeda di bin-Laden.
Quanto i raid militari americani sono stati efficaci?
La loro efficacia è limitata. I raid sono stati sostanzialmente decisi per proteggere Erbil, la capitale curda con una forte presenza americana. Ma i raid non indeboliscono davvero l’ISIS. La soluzione non può che essere politica.
Come?
Bisogna anzitutto costringere al-Maliki a fare davvero quel passo indietro che per mesi ha rifiutato di fare. E per costringerlo, è necessario avvalersi anche dell’intervento dell’Iran. La comunità internazionale deve smetterla di considerare l’Iran un Paese ‘canaglia’, con cui discutere soltanto di nucleare. Ci sono tanti altri temi sul tappeto con Teheran, che possono poi condurre alla soluzione del problema del nucleare. L’Iraq è uno di questi. L’Iran ha interesse a una stabilizzazione della situazione in Iraq, e il suo interesse coincide con quello della comunità internazionale. E’ un’occasione che non ci si dovrebbe lasciar sfuggire. Detto questo, la stabilizzazione dell’Iraq passa inevitabilmente attraverso un governo che rappresenti le tre comunità che ne costituiscono l’ossatura: sunniti, sciiti e curdi. Se non si trova il modo di mettere in atto politiche di inclusione politica e sociale di tutti i gruppi etnici, istituzioni e forze militari irachene resteranno in balia dell’Isis.