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Simone Camilli e gli altri: se il bisogno di testimoniare costa la vita

E’ un’estate triste. In nemmeno tre mesi sono rimasti uccisi tre colleghi bravi, appassionati, generosi e responsabili: Andy Rocchelli, Andry Mironov e Simone Camilli. Nel 2010, grazie alla professionalità e abilità di Simone avevo potuto arricchire il reportage per Current tv sulla violenza dei coloni nei Territori occupati palestinesi che stavo girando con il filmaker Pietro Bellorini, con il quale Simone avrebbe poi fatto “About Gaza”.

Tutti noi, che lavoriamo in zone di conflitti, mettiamo in conto la morte, più difficile accettare invece l’idea di rimanere feriti. Ogni volta che stipulo l’assicurazione sanitaria – i freelance la possono ottenere solo attraverso Reports sans frontieres – devo decidere se inserire nel contratto la voce “smembramento” e certe volte mi verrebbe voglia di saltarla come per scaramanzia. Ma poi ritorno in me. La prospettiva di rimanere mutilati non è solo terrificante in sé ma apre il capitolo di come sopravvivere con i premi assicurativi che sono, soprattutto quelli disponibili per i free lance, sempre inadeguati a sostenere una vita da infermi.

Ma a rischiare di più sono proprio i fotografi e i filmmaker freelance, per varie ragioni. Innanzitutto perché per definizione devono stare il più vicino possibile alla linea del fronte che è sempre più mobile e difficile da individuare: i conflitti sono diventati asimmetrici, combattuti non tra due eserciti ma tra soldati e guerriglieri, che prediligono le imboscate. Secondo perché i free lance arrivano spesso senza un assegnato, senza cioè essere stati incaricati da un’agenzia o da un giornale. L’assegnato se lo devono guadagnare sul campo e come lo fanno? Andando il più possibile dentro il cuore degli scontri. Questo aumenta il livello di pericolo non solo di chi ci entra ma anche dei colleghi che per riuscire ad avere materiale “buono” da vendere devono fare altrettanto.

I direttori e i photo editor poi vogliono “immagini o storie forti” e per scattarle o trovarle bisogna andare ancora più vicino al pericolo e prima di tutti gli altri. Con la nascita delle agenzie fotografiche online dove chiunque può caricare il proprio materiale, chi arriva per primo e con la foto più forte ha più possibilità di vedere acquistato il proprio lavoro. L’aumento esponenziale dell’offerta ha inoltre fatto crollare i prezzi e solo un lavoro eccezionale, che molte volte fa rima con estremamente pericoloso, viene pagato bene. I freelance, a meno che non siano ricchi di famiglia, sono dunque costretti a rinunciare alla scorta, al fixer, al traduttore, perché non se li possono permettere, considerato che nelle zone di guerra tutto costa il triplo, se non il quadruplo.

Ma una cosa va sottolineata: pochi lo fanno per incoscienza, per adrenalina o per la gloria. La maggior parte di noi sente la necessità di testimoniare, di denunciare la violenza, le ingiustizie, di raccontare che tanti soffrono mentre una esigua percentuale di gente fortunata nell’ovest del mondo guarda altrove. Per farlo al meglio però è necessario avere anche una preparazione, anche militare, che pochi hanno dato che di corsi ce ne sono pochi e quelli che ci sono sono costosi. Seguire la storia mentre si compie sul terreno è rischioso e anche i più preparati, come Simone, possono perdere la vita, figuriamoci chi non possiede nemmeno un giubbotto antiproiettile e un casco.