Intervista a Graziella Priulla, sociologa della comunicazione: "Il turpiloquio è stato sdoganato. Non si usa più un linguaggio “corretto” per non urtare la sensibilità altrui. Non è una faccenda di galateo ma un problema di frustrazione individuale e di mancanza di regole sociali. C'è qualcosa che non va nella sensibilità diffusa se un bambino a 11 anni manda un sms a una compagna di classe scrivendole: “Sei una zoccola”"
Viviamo in un Paese dove non ci si stupisce se un politico si appella a un rivale chiamandolo “rompicoglioni” oppure a una ministra definendola “puttana”. Eppure fino a qualche decennio fa la situazione era diversa. Difficile immaginare Alcide De Gasperi che, alla Conferenza di pace di Parigi nel 1946, mentre dice “Sento che tutto, tranne la vostra cortesia, è contro di me”, fa le corna. Come siamo arrivati a questo livello di trivialità? Se lo chiede Graziella Priulla, sociologa della comunicazione, nel libro “Parole Tossiche”, appena pubblicato da Settenove, casa editrice specializzata in testi sulla prevenzione della violenza e delle discriminazioni di genere.
Professoressa Priulla, perché usiamo così tante parolacce?
Il fatto è che il turpiloquio è stato sdoganato. Qualcosa, sul piano civile, è cambiato rispetto a tempo fa quando si usava un linguaggio “corretto” per non urtare la sensibilità altrui, per rendere gradevole la convivenza civile. Adesso invece le “brutte parole” sono culturalmente legittimate nelle case, in tv, perfino nelle istituzioni: da eccezioni legate a stati d’animo particolari sono diventate termini di uso consueto, quasi automatismi. Non è una faccenda di galateo ma un problema di frustrazione individuale e di mancanza di regole sociali.
Nel libro lei cita una serie di esempi per dimostrare quanto la nostra classe politica sia maleducata. I bersagli privilegiati sono le donne?
Sembra proprio di sì. Mentre alla Camera si discuteva la legge sulla fecondazione artificiale, una delle argomentazioni rivolte alle parlamentari fu questa: “Voi siete contrarie alla legge perché volete continuare ad essere scopate”. La trivialità si coniuga con l’omofobia, il razzismo e la misoginia. Continuamente vengono rivolti insulti a Laura Boldrini, colpevole di essere donna. Figuratevi Cécile Kyenge, che è donna e nera. La politica si nutre di gesti e di parole. Il problema è che le parole non sono strumenti inerti ma definiscono l’orizzonte nel quale viviamo: a partire dalla classe dirigente.
Lei sottolinea che le parolacce finiscono anche nei titoli dei giornali e poi un termine come “femminicidio”, che indica l’uccisione di una donna in quanto appartenente al genere femminile, viene usato malvolentieri perché considerato inelegante o difficile da capire. Come giudica questo atteggiamento?
E’ importante che la parola sia stata coniata e che si cominci ad usarla per indicare un assassinio dalle caratteristiche peculiari: ciò che non si nomina non esiste. E’ altrettanto fondamentale che si utilizzi correttamente la grammatica, e che si dica e si scriva che Maria Elena Boschi e Federica Mogherini sono ministre e non ministri, che Boldrini è la presidente, che Susanna Camusso è la segretaria della Cgil. Non è irrilevante: è un’abitudine che rende pian piano familiare il fatto che le donne accedano a cariche di prestigio un tempo riservate agli uomini. La lingua è un potente motore di cambiamento.
Lei scrive che nelle scuole gli insegnanti sono ormai rassegnati all’essere insultati e i genitori, in un quarto delle famiglie, vengono presi a male parole dai figli. Di chi è la responsabilità?
In famiglia e a scuola si vive spesso un clima di permissivismo che porta a sottovalutare la necessità di mettere dei paletti. Contrariamente a ciò che il senso comune ritiene, le regole non esistono per impedire comportamenti, per limitare la libertà degli individui, ma per migliorare i primi e agevolare la seconda. C’è qualcosa che non va nella sensibilità diffusa se un bambino a 11 anni manda un sms a una compagna di classe scrivendole: “Sei una zoccola, devi andare sull’Aurelia a battere”.
Un’altra questione affrontata nel saggio riguarda gli appellativi e gli insulti che vengono rivolti alle persone omosessuali. In che modo il linguaggio perpetua la discriminazione?
In Europa c’è un evidente imbarazzo per l’omofobia italiana. Da noi è difficile far comprendere che il diritto di critica e la libertà di opinione non possono essere equivocati con la libertà di attacco alle persone. Da secoli alla demonizzazione del comportamento omosessuale si accompagna l’esplicito fiorire di termini ironici o spregiativi che spesso sono accompagnati dalla violenza fisica. L’accusa di essere gay rivela pregiudizi, ignoranza e l’incapacità di fare i conti con un’idea stereotipata di maschilità. Condiziona la possibilità che l’amore e la sessualità rientrino nella sfera dei diritti.