Pubblichiamo oggi la lettera di Simone Traversa un giovane autore che ha frequentato il Valle facendo parte di vari laboratori come Cavie condotto da Giacomo Ciarrapico, del Comitato di lettura e che oggi fa parte degli scrittori del progetto Rabbia. Ci ha scritto all’indomani della nostra uscita dal teatro Valle per ringraziarci e raccontarci cosa è stato per lui il Teatro Valle nel periodo dell’autogoverno. Simone ha sviluppato una scrittura che si intitola “La cantilena” e che si può vedere all’inizio di questo video insieme alle altre scritture di RABBIA#8.

Sebbene naturalmente si finisca col diventare altro

Ho frequentato il Teatro Valle per poco meno di due anni, dal novembre 2012 ad agosto 2014. La mia frequentazione non la considero conclusa, di sicuro quella esperienza, in quel teatro, si è conclusa il dieci agosto 2014.

Cosa mi rimane dopo due anni di frequentazione, da libero cittadino? Potrei usare un termine vago, tipo: tantissimo. Ma poi? Come definire questo tantissimo?

Di sicuro ho imparato delle cose, non so se queste cose siano giuste, quello che ho imparato però non me le ha insegnate nessuno, è bastato vivere quel luogo, in quel tempo. Dunque, una prima cosa che ho imparato è che, per apprendere, non è necessario che ci sia una specifica figura che insegni.

Un’altra cosa che ho imparato è che si può avere ventiquattro anni, avere ambizioni artistiche, ed essere presi sul serio.

Ho imparato che ci si può affezionare davvero ad un luogo.

Ho imparato che un luogo non necessariamente è definito dalla sua metratura, che non per forza un teatro apre due ore prima della messa in scena e chiude un quarto d’ora dopo, che il teatro dei ragazzi è un teatro delle grandi azioni, che un teatro non per forza deve ospitare spettacoli teatrali, che in un teatro possono essere trasmesse partite di calcio, che un teatro va pulito più volte al giorno sennò si sporca, che tutta la questione della fonica delle luci delle scenografie è un casino, che è vero che uno spettacolo può far ridere adulti e bambini, che un biglietto può costare dieci euro e al contempo si possono pagare attori e maestranze, che nel teatro esistono i praticabili mobili, che guardare la platea dal palco è un’esperienza a cui si deve arrivare preparati, che gli spettatori possono fruire dello spettacolo sedendo sul palco, che la democrazia partecipata non può avvenire su internet perché sono indispensabili i corpi, che delle persone possono decidere di dedicare tre anni della loro vita alla cura di un teatro pur di garantire l’accesso alla struttura, che i termini legale, legittimo e giusto non sono sinonimi, che ci possono essere dei validi motivi per restare in Italia, che il luogo in cui studi non è detto che sia quello che ti forma, che ci sono un sacco di persone che hanno voglia di andare a teatro e di restarci anche a spettacolo terminato e di ritornare anche se non c’è uno spettacolo, che le persone parteciperebbero attivamente ai processi decisionali e a lunghe ed interminabili e stroncanti e talvolta noiosissime assemblee, se solo se ne desse loro l’opportunità.

Ho poi imparato che si scrive molto meglio se si sottopongono i propri lavori alla comunità, che il lavoro degli attori è scrittura, che scrivere può essere faticoso, che una scelta registica azzeccata vale metà dell’opera, che il fraintendimento può essere molto più proficuo di una comprensione piena, che la quarta parete può essere attraversata da chiunque in qualunque momento per qualsivoglia motivo (questo non è del tutto vero), che è molto difficile stilare un elenco di cose che si sono imparate stando al Valle, frequentando Cavie, frequentando Rabbia, vedendo i lavoro di Crisi, guardando gli spettacoli della rassegna di Orazio, usufruendo dei bagni, camminando avanti e indietro sul palco, chiedendo un bicchiere d’acqua nel foyer, osservando il viavai di facce ora nuove ora familiari.

Il titolo di questo breve pezzo, che dedico alle persone del Valle, a tutte, a quelle che ho conosciuto, a quelle con cui ho parlato per pochi minuti, a quelle che non ho conosciuto, a quelle che non ho nemmeno visto, a quelle che non ho visto e che mai mi sarà dato vedere perché ho saputo che sono morte, a tutte loro, perché ognuna di loro ha contribuito a rendere il Valle l’esperienza che è stata, e preferisco una tautologia ad un qualche consunto aggettivo la cui forza descrittiva sarebbe nulla, dicevo, a tutti e tutte, voglio dedicare questo pezzo il cui titolo è una citazione di uno scrittore, in originale è “although of course you end up becoming yourself”: non so se quello del Valle fosse un destino, vi sarà una trasformazione, in meglio, mi auguro, in peggio, temo, quel che mi conforta è che la massima ellenica per la quale nulla si crea e nulla si distrugge è una di quelle leggi che funzionano da diverse migliaia di anni, e si applica indistintamente bene a qualunque fenomeno della vita, per cui, se si resisterà alla dispersione, a cui ogni forma di energia liberata è soggetta, allora tutto il lavoro prodotto non sarà perduto.

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