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Iraq e altre guerre, Obama e Papa Francesco: il coraggio è sotto assedio

Sta accadendo un fatto strano negli Stati Uniti e nel mondo. Barack Obama, probabilmente il presidente americano più coraggioso dai tempi di Roosevelt, è sotto accusa, nella politica americana e nella stampa internazionale: è incline a ritirarsi dal pericolo, poco adatto a fronteggiare il nemico, è simbolo di una guida debole e incerta che priva i grandi Paesi democratici di un percorso sicuro. L’accusa avviene su due piani, quello dei fatti e quello dell’immagine.

Nei fatti Obama viene giudicato esitante perché non attacca e non manda soldati. La sua immagine appare a molti fragile e quasi femminea perché, in tutte le opzioni che offre e discute, non parla di guerra. Prendiamo dunque l’intera vicenda (che ha portato a Obama persino il giudizio aspro di Hillary Clinton, che è stata il suo segretario di Stato) dal punto in cui tutto inizia e che fa di Barack Obama il presidente più nuovo e diverso degli Stati Uniti dal 1945. Obama non vuole fare la guerra. La rifiuta e la esclude dagli strumenti che possono risolvere i problemi del mondo. Per prima cosa, affinché l’idea apparisse priva di ambiguità a tutti gli americani, Obama ha chiuso un disastroso fronte di guerra, l’Iraq, e si sta intensamente impegnando a chiudere il secondo, l’Afghanistan, del quale non può non prevedere la stessa sorte, un immenso disordine e una paurosa mancanza di leadership. Un fatto interessante è che Obama non ha mai teorizzato il rifiuto della guerra, conoscendo benissimo la trappola del pacifismo, strumento da accantonare insieme alla guerra. Ma ha voluto far capire e sapere subito che la potenza di un grande Paese conta solo se non entra nel vicolo cieco della prova armata. Quel vicolo ha solo due uscite: vincere con la distruzione totale (e col rischio altissimo che quella distruzione sia reciproca); o perdere, come è sempre accaduto, dalla Corea divisa ai giorni nostri.

Ogni volta l’America ha fatto la guerra per mostrare la sua capacità di risolvere subito le controversie. Poi ha dovuto fermarsi e trattare, perché le armi di cui dispone sono troppo potenti. E non ci si può mettere alla guida di un mondo distrutto.

Con un atteggiamento così paradossalmente diverso dalla classica egemonia americana (in cui si pensava che tutto dovesse essere modellato a immagine e somiglianza della Seconda Guerra mondiale, dimenticando che quella guerra non era finita in Europa, ma con le due bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki), Barack Obama si trova al momento isolato, o meglio, circondato, come in stato d’assedio, da una incomprensione diffusa e profonda che facilmente si trasforma in disprezzo. Infatti non fa paura uno che rifiuta la guerra come principale strumento di governo.

Possiamo mettere da parte l’attacco di Hillary Clinton, interprentandolo per quello che è : una non nobile trovata elettorale per far capire che la Clinton sarà candidata e che provvederà lei, benché donna, a riportare la politica nel ruolo che le compete, accanto all’uso della potenza. Possiamo definire la brutale ostilità del Tea Party, estrema destra del partito repubblicano, come un salto in basso della cultura politica di quel Paese, incapace di capire (oltre che impegnata a osteggiare, per ragioni di competizione partitica) il progetto di ridefinizione della politica di potenza di Barack Obama. Il problema è più grave su due diversi piani: da un lato le organizzazioni internazionali, a cominciare dalle Nazioni Unite, sono fuori servizio, sono montacarichi bloccati e inutili. Dall’altro i governi, a cominciare dall’Unione Europea, sono troppo deboli e distratti. Eppure deprecano che – di alcuni gravi problemi – “l’America non si occupa”. Ma rifiutano di farlo essi stessi. Oppure, come Giappone e Ungheria, stanno spostandosi talmente a destra da non poter provare alcun rispetto per un Paese che non mostra per prima cosa le armi.

Qualcuno avrà notato un fatto che in apparenza riguarda solo Stati Uniti e Israele: il presidente americano vuole essere informato su ogni nuovo ordinativo di armi da spedire da un Paese all’altro, qualcosa che prima era automatico; come per segnare una discontinuità non nel sostegno fra Paese e Paese ma nel rapporto con le armi e la loro potenza, e la preoccupazione di porre, a quella potenza, sempre più limiti disegnati dalla politica.

Qui appare una analogia straordinaria (benché quasi del tutto priva di contatti) fra Barack Obama e Papa Francesco. Entrambi non giovano alla rispettiva Chiesa o Stato, dal punto di vista della percezione di molti (lustro, prestigio, timore). Certo non nella percezione delle due diverse opinioni pubbliche e dell’osservazione degli estranei interessati. Sia Francesco che Obama appaiono, in due modi e due mondi diversi, meno potenti e, in un certo senso, meno centrali. E si diffonde l’idea che si può anche disubbidire, perché, nei rispettivi ambiti, i due leader sono “discutibili”. Diciamo che entrambi stanno correndo un grande rischio, perché sembrano camminare nel vuoto mentre tentano di dirigersi verso uno spazio finora ignoto, uno verso la persuasione senza imposizione di autorità, l’altro alla ricerca di un mondo di politica e di diplomazia che tiene indietro le armi . Qualcuno li ammira, anche appassionatamente. Ma i più non riconoscono i gesti sempre ripetuti, finora, della storia. Ancora non sappiamo se l’immensa novità rappresentata da due uomini così diversi, in ambiti così diversi sarà accolta o respinta.

Il Fatto Quotidiano, 17 agosto 2014