Gli americani non hanno nessuna intenzione di rimandare i propri soldati in Iraq, è quello che la stampa ed i politici ripetono da settimane, ed è vero. Negli Stati Uniti oggi si respira un’aria completamente diversa dall’angoscia del nemico in casa dei primi anni duemila. Il paese è in ripresa economica, con una crescita del 4 per cento nel secondo trimestre, anche l’occupazione è in aumento con 200 mila nuovi posti di lavoro creati ogni mese.
Gli americani sono anche stanchi di fare i poliziotti del mondo, dal dopoguerra il pedigree militare statunitense è infatti pessimo: de facto la più grande potenza militare al mondo ha perso tutte le guerre a parte l’invasione di Granada ed il mini conflitto a Panama. L’ultima sconfitta è avvenuta proprio in Iraq, una nazione che oggi rischia di vedere gran parte delle proprie risorse strategiche cadere in mano dell’Esercito Islamico, una nazione che i soldati americani insieme a quelli di coalizione hanno abbandonato al proprio destino poco piu’ di un anno fa regalandogli una democrazia che fa acqua da tutte le parti. Tutto ciò spiega perché nessuno, neppure il presidente Obama, riuscirà a vendere all’elettorato un’altra guerra in Medio Oriente.
Discorso analogo vale per gli europei anche se per motivi completamente diversi. Il tema caldo europeo rimane la prolungata crisi economica, specialmente nelle economie più grandi, che a quanto pare si sta riaccendendo – nel secondo trimestre la Germania ha fatto registrate una crescita negativa (-0,2 per cento), la Francia è ferma a zero e l’Italia è tornata in recessione. L’ipotetica minaccia di attentati terroristi da parte dei militanti jihadisti del califfato rimpatriati in Europa fa meno paura della deflazione e della stagnazione dell’economia. Se è, dunque, vero che gli americani non andranno in guerra perché vogliono godersi la ripresa è ancor più vero che gli europei sono troppi stressati dalla mancata crescita per preoccuparsi della minaccia del terrorismo in casa e della guerra in Medio Oriente.
Paradossalmente, oggi ragioni umanitarie, e non di supremazia economica nel Medio Oriente, giustificherebbero sia l’intervento statunitense che quello delle forze di coalizione, ma, ahimè, tutti sanno che le guerre non si combattono per motivi umanitari ma per ragioni principalmente economiche. E questo è sicuramente vero anche per il Califfato islamico.
Dal 2010, da quando il gruppo che allora si faceva chiamare Stato Islamico in Iraq ha passato il confine siriano per partecipare alla guerra civile in quel paese, la strategia della sua leadership è stata quella di conquistare il controllo di risorse strategiche, tra le quali l’acqua, per rendersi indipendenti dagli sponsor Arabi. Una politica che ha dato i suoi frutti sia in Siria che in Iraq.
La battaglia che si sta combattendo oggi tra da una parte l’esercito Kurdo appoggiato dagli aerei drone americani e dai combattenti del PKK, ufficialmente ancora considerato un gruppo terrorista, e dall’altra l’esercito del Califfato per il controllo della diga di Mosul, non ha nulla a che vedere con la pulizia religiosa in atto nel nord dell’Iraq. Ancora meno plausibile è l’idea che lo Stato Islamico voglia far saltare in aria la diga per allagare Mosul e parte di Baghdad, a che pro infatti?
La diga di Mosul fornisce elettricità a gran parte del Nord ovest iracheno ed alimenta un vasto bacino agricolo, controllarla significa avere a disposizione una ricchezza quasi più preziosa dei pozzi di petrolio del sud del paese. Il Califfato ha anche tentato, senza successo, di impadronirsi della diga di Daditha, sull’Eufrate a sud ovest di Baghdad che soddisfa un terzo della domanda di elettricità del paese.
Il controllo dell’acqua in una regione dove questa è preziosissima offre al Califfato da una parte la possibilità di provare il proprio ruolo di Stato e non di organizzazione terrorista, in quanto gestisce un’infrastruttura importantissima per la nazione. Dall’altra gli permette di influenzare l’industria alimentare, altro settore chiave per l’immagine di stato agli occhi della popolazione.
Al momento circa il 40 per cento della produzione di grano è nelle mani dello Stato Islamico che ha confiscato diversi silos nel nord del paese. Secondo il ministero dell’agricoltura iracheno il 30 per cento della produzione agricola nazionale è a rischio, ciò significa che per evitare il peggio gli agricoltori potrebbero essere inclini ad appoggiare il Califfato ed il governo a scendere a compromesso su un’eventuale spartizione della nazione.
La vera battaglia in Iraq come in Siria si combatte nel settore delle risorse, per vincerla non basta armare i kurdi o bombardare con i drone, bisogna difendere le risorse strategiche e perseguire una politica economica che incentivi il benessere tra la popolazione. Ma queste sono strategie che si dovevano perseguire anni fa, quando l’Iraq è diventato una democrazia sotto la supervisione delle forze di coalizione, politiche che avrebbero evitato la corruzione e la degenerazione del sistema democratico in un meccanismo di discriminazione etnica.