I conti semestrali evidenziano come non si veda ancora la luce in fondo al tunnel dei crediti difficili da recuperare. E' il portato della crisi ma anche di scelte di finanziamento azzardate: come le centinaia di milioni concesse da Mps alla Sorgenia dei De Benedetti, da Intesa alla Tassara di Romain Zaleski e da tutti gli istituti ad Alitalia
Nessuna luce in fondo al tunnel, neppure un lumicino. I conti semestrali delle banche italiane hanno evidenziato come, sul fronte delle sofferenze creditizie, non si veda ancora un’inversione di tendenza. A voler essere a tutti i costi ottimisti si può al massimo notare come la crescita dei crediti dubbi stia rallentando. In qualche caso, come quello di Unicredit, si registra persino una lieve diminuzione. Complessivamente però siamo ancora in alto mare. Secondo l’Associazione delle banche italiane le sole sofferenze, cioè il segmento più problematico dei crediti dubbi (quelli che si pensa ormai di poter in parte recuperare solo passando dai tribunali), sfiorano i 170 miliardi di euro. E incidono per quasi il 9% sul totale dei finanziamenti, a fronte del 6,9% di un anno fa e del 2,8% del 2007. E’ principalmente il portato di una crisi che si protrae più del previsto, perché le sofferenze iniziano solitamente a diminuire 12-18 mesi dopo che l’economia ha ripreso crescere. Ma si tratta anche, in una certa misura, del frutto di scelte di finanziamento azzardate.
Una delle situazioni più problematiche rimane quella del gruppo Monte dei Paschi di Siena. Concluso l’aumento di capitale da 5 miliardi di euro, la banca senese ha presentato conti semestrali in rosso per 353 milioni di euro, portando le perdite degli ultimi 3 anni a 9,5 miliardi. Tanto che c’è già chi ipotizza la necessità di una nuova ricapitalizzazione fino a 2 miliardi. Il passivo è frutto anche di un continuo peggioramento della situazione creditoria. I prestiti dubbi sono saliti in valore lordo sopra i 38 miliardi di euro. In termini netti (ovvero già rettificati nei bilanci, in pratica quanto la banca prevede di poter in qualche modo recuperare) sono cresciuti del 2,4% a 22 miliardi di euro su 132 miliardi di crediti alla clientela. In pratica 1 euro prestato ogni 6 è a rischio. In mezzo a questo mare di soldi ci sono anche 710 milioni di euro prestati al gruppo energetico Sorgenia, creato dalla Cir di Carlo De Benedetti nel 1999, divenuto negli anni una macchina da debiti (sono quasi 2 miliardi di euro) e passato poche settimane fa nelle mani delle banche creditrici. Centinaia di milioni che, come si è appreso dal prospetto per l’aumento di capitale, per ora Mps ha classificato come incagli. Una categoria “limbo” che spesso precede il passaggio a vere e proprie sofferenze. Ora questi prestiti saranno convertiti in azioni facendo della banca senese il primo azionista della società con il 22% del capitale. Il rischio di credito si trasforma a tutti gli effetti in rischio di mercato. In passato non è andata benissimo. Mps vantava già una piccola partecipazione diretta nel gruppo (1,1%) che fa la sua ultima apparizione nel bilancio del 2012 quando il suo valore viene rettificato da 40 a 7,7 milioni di euro. Dopo di che sparisce, probabilmente perché valutata zero.
Alla faccia della stretta creditizia, a gettare risorse in veri e propri pozzi senza fondo sono però anche i big Unicredit e Intesa SanPaolo. Tra le società divora-prestiti un posto d’onore lo merita la Tassara del finanziere Romain Zaleski. Intesa è esposta verso la società per 637 milioni di euro dopo aver effettuato una rettifica da 497 milioni su prestiti per 1,1 miliardi di euro classificati come incagli. Anche Unicredit ha versato il suo obolo al finanziere francese di origini polacche. A fine 2013 il gruppo era esposto per 463 milioni, oggi per 132. Nell’ultimo anno e mezzo il finanziamento è stato ripetutamente rettificato per una cifra complessiva di 120 milioni di euro (soldi in pratica andati in fumo). C’è poi la nuova partita, tutta da giocare, di Alitalia. I 560 milioni di finanziamenti bancari (tra cui 280 milioni di Intesa Sanpaolo, 90 milioni di Mps, 140 milioni di Unicredit) sono stati ripetutamente svalutati e ora verranno in larga parte trasformati in azioni il cui destino sarà legato al successo o meno del piano di rilancio con Etihad.
Benché posizionate meglio dei concorrenti, le due principali banche italiane non possono dormire sonni tranquilli. Nei primi sei mesi dell’anno i crediti dubbi di Intesa SanPaolo, che pure non lesina fiducia alla Nuovo Trasporto Viaggiatori dei treni Italo di Luca di Montezemolo nonostante le difficoltà, sono passati in valori lordi da 57 a 60 miliardi con un tasso di copertura (cioè le svalutazioni già effettuate) che però migliora e raggiunge il 46,6 per cento. Dal canto suo Unicredit evidenzia un ammontare di “non performing loans” pari a 82,3 miliardi di euro, con un calo di oltre un miliardo rispetto al terzo trimestre ma sostanzialmente stabili rispetto a inizio anno. Il tasso di copertura è stabile al 51,2% dopo le gigantesche correzioni di fine anno che hanno portato a una perdita nel 2013 di 14 miliardi di euro. Le altre due tra le prime cinque banche italiane non se la passano molto diversamente. I prestiti malati del Banco Popolare sono saliti da 19 a 20 miliardi di euro, con un tasso di copertura in lieve calo al 26,6 per cento. E’ andata un po’ meglio per Ubi banca che ha visto i crediti deteriorati loro salire leggermente da 12,6 a 12,8 miliardi di euro. Anche per il gruppo Ubi ha pesato il capitolo Sorgenia con 155 milioni di prestiti classificati “incagli”. La situazione potrebbe migliorare qualora arrivassero a conclusione i tentativi di cessione di parte dei crediti dubbi a società specializzate. Unicredit e Intesa Sanpaolo lavorano congiuntamente a un progetto che coinvolge il fondo di private equity KKR. Incontra poi difficoltà e tempistiche più lunghe del previsto la cessione di Release, la bad bank che contiene i crediti in sofferenza del Banco Popolare e che nelle ultime ore avrebbe suscitato l’interesse di Deutsche Bank.
Disfarsi dei crediti dubbi permette di liberare risorse per nuovi finanziamenti ma non è indolore per i bilanci. Chi compra ha ovviamente interesse a che il prezzo dei crediti venga fissato su livelli inferiori rispetto a quello che potrà realmente incassare spremendo i debitori. Attribuire un valore “reale” ai crediti dubbi significa però per le banche che li vendono portare a casa nuove perdite, solo in parte compensate da quanto incassato con la cessione.