“Da tutte le relazioni dell’Istituto superiore per la conservazione e il restauro fatte dopo le campagne di restauro di questi anni emerge in grande evidenza la fragilità strutturale dei Bronzi di Riace”, ha dichiarato all’Ansa la soprintendente archeologica della Calabria, Simonetta Bonomi. Quando il grande storico dell’arte Roberto Longhichiese per una mostra un certo codice miniato, ricevette un geniale telegramma da parte del consiglio comunale del paese lombardo che lo possedeva: “Spiacenti non poter concedere prestito oggetto in parola perché ne abbiamo uno solo”.
Le opere d’arte sono pezzi unici, individui insostituibili proprio come le persone. Certo, la tecnologia di oggi permette di fare quasi tutto: ma nessuna tecnologia elimina completamente il rischio. Capita che le opere d’arte si rompano. L’anno scorso, il Parlamento scozzese ha ascoltato in audizione il direttore della National Gallery di Londra sui pericoli corsi dalle opere d’arte vorticosamente spostate per alimentare l’industria delle mostre. Nicholas Penny è stato tanto franco e tanto duro che la sua deposizione è stata secretata. Non prima, però, di essere finita per errore sul sito del Parlamento, per qualche minuto: corredata da foto allucinanti di opere mutilate durante gli spostamenti.
Allora la domanda è: vale la pena di far correre questo rischio ai Bronzi per portarli all’Expo? Il padiglione Italia sarà già presidiato da una copia del David di Michelangelo. E ripiegare su un artista morto da mezzo millennio non è proprio un messaggio di fiducia. Almeno che non si voglia dire che il nostro destino è essere l’eterna brutta copia di un paradiso perduto. Un Paese che si identifica e si rappresenta con una patacca. Una stella morta percepibile solo attraverso la luce emessa secoli fa. All’Expo, l’Italia dovrebbe, invece, parlare del proprio futuro: che non può coincidere con un’economia di rendita capace solo di trivellare quello che i nostri ministri per i Beni culturali si ostinano a chiamare un “giacimento petrolifero”. Una sindrome che iscrive anche l’Italia alla lista dei “paesi che abbondano di risorse naturali, e che sono tristemente famosi per le attività di ricerca della rendita. In tali paesi è molto più facile diventare ricchi ottenendo un accesso privilegiato alle risorse che generando ricchezza. Questo è spesso un gioco a somma negativa, una delle ragioni per cui quei paesi sono cresciuti in media più lentamente di altri con caratteristiche analoghe, ma senza la fortuna di simili risorse” (Joseph Stiglitz). È così che ci vogliamo raccontare al mondo?
I Bronzi furono plasmati e fusi in Grecia, e affondarono di fronte alla Calabria per puro caso: vogliamo accreditare l’idea che il futuro del Paese sia affidato allo Stellone italico? Perché se invece volessimo dimostrare che siamo all’altezza di ciò che ci è toccato in sorte, forse dovremmo evitare di metterlo a rischio senza una buona ragione. Sradicare i Bronzi dal museo appena faticosamente riaperto darebbe al mondo un segnale terribile. E cioè che la Calabria sia definitivamente perduta: un corpo morto da cui espiantare gli organi pregiati.
La vera sfida è, al contrario, aprire le altre sale del museo di Reggio Calabria. Una sfida più grande è quella di costruirgli intorno strutture ricettive degne di questo nome. E una più grande ancora è quella di far sì che la Salerno-Reggio Calabria assomigli finalmente a un’autostrada vera, e riesca a portare di fronte ai Bronzi più visitatori dei 114. 730 che li hanno comunque visti nei primi sette mesi di quest’anno. I Bronzi di Riace non dovrebbero andare all’Expo perché questa Italia col cappello in mano e i gioielli di famiglia al collo non la vogliamo vedere più. La creazione della commissione annunciata dal ministro Dario Franceschini è, invece, una mossa democristiana che sconfessa gli organi del ministero creando l’ennesima istanza eccezionale, e tentando di nascondersi dietro il lato tecnico del problema. Ma è di una politica culturale che abbiamo bisogno.
Il Fatto Quotidiano, 19 agosto 2014