I giornali d’agosto saranno pure pieni, come ha dichiarato il nostro esuberante premier, di progetti segreti del governo che neanche il governo conosce. Peccato che a lanciare l’ipotesi di un prelievo sulle pensioni d’argento – e forse, visto dove dovrebbe essere fissata la famosa “asticella”, pure di bronzo e di latta – sia stato il ministro del Lavoro Poletti. Che dopo aver lasciato che i vari Alfano e Sacconi imperversassero per giorni con dichiarazioni a ruota libera sull’articolo 18, ha rotto finalmente il silenzio, dalle pagine del Corriere della Sera, per annunciare l’idea, nuova come la pioggia d’autunno, di un prelievo sulle pensioni. Perfetta per tenere allegri gli italiani d’estate, specie se accompagnata dalla “rassicurazione” del sottosegretario all’Economia Baretta (“Chi guadagna fino a 2.000 euro netti al mese può stare assolutamente tranquillo”).

Sia chiaro: chi scrive fa parte di quella generazione, mai difesa dai sindacati, che ormai vive nella drammatica consapevolezza di ricevere una pensione da poche centinaia di euro, interamente sudate col regime contributivo. E che ha sempre guardato con una certa indignazione al compromesso che nel 1995 salvò dal passaggio al nuovo regime una buona parte di lavoratori, impedendo quella riforma radicale che avrebbe reso il sistema previdenziale più equo (in tempi tra l’altro di ottimismo e crescita del Pil).

Da questo particolare punto di vista, suscitano persino una certa ironia alcune difese conservatrici alla proposta del governo, ad esempio quelle di alcuni commentatori – spesso gli stessi che scrivono contro la retorica dei diritti acquisiti e a favore delle riforme – che dalle colonne dei loro giornali si sono subito scagliati a difesa del loro, privatissimo, diritto: la propria pensione minacciata. Ma il punto è un altro: e cioè che il taglio delle presunte pensioni “ricche” non rappresenta in alcun modo un’operazione di equilibrio tra generazioni famosa retorica del “togliere ai padri per dare ai figli” – che in molti invece vorrebbero venderci. Primo, perché se fosse tale i soldi ricavati dall’operazione dovrebbero andare realmente a favore delle generazioni svantaggiate, e non a coprire emergenze come quella degli esodati (che lo stesso Stato ha creato) o come il finanziamento della cassa integrazione in deroga: in breve, al solito, per fare cassa. Secondo, perché oggi le pensioni dei “padri” sostengono una massa di precari e disoccupati semi-disperati, che senza l’aiuto dei genitori non potrebbero letteralmente vivere. Nel deserto del welfare e dei servizi – dove per ottenere esenzioni o prestazioni essenziali bisogna avere un Isee letteralmente da fame –, nell’assenza di misure contro la povertà e di un assegno universale per qualunque lavoratore, anche se precario o intermittente, perda il lavoro, nella latitanza completa dello Stato rispetto ai bisogni delle coppie giovani (primo fra tutti, un posto all’asilo nido), l’unico welfare rimasto è quello familiare, sul quale forzatamente chi non si aspetta più nulla dallo Stato deve fare i conti per qualsiasi scelta esistenziale, a partire dalla possibilità di avere un figlio.

D’altronde, sono le pensioni dei padri che oggi pagano i mutui che le banche non concedono ai figli precari, oppure la retta dell’asilo nido quando il pubblico ti mette in lista d’attesa (o ti presenta una retta pari quasi al privato, come nel nord d’Italia), garantendo tra l’altro quella fragile coesione sociale che presto salterà quando queste risorse finiranno. In tempi di recessione e di emergenza sociale, misure come queste non fanno che aumentare rassegnazione e sfiducia verso istituzioni ormai vissute come ostili, quando non letteralmente persecutorie. Oltre che a rivelare il vecchio del “nuovo” che avanza: tagli e tasse, alla faccia della retorica dell’ottimismo e del futuro pieno di belle speranze.

Dal Fatto Quotidiano del 21 agosto 2014

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