Tra le qualità nascoste del vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri c’è quella di sbatterci in faccia con le sue uscite temerarie una realtà così inquietante che tendiamo spesso a rimuoverla: è della sua pasta che è fatta una parte consistente della classe politica italiana. Così, tra una lite con il puffo Brontolone e un rinvio a giudizio con l’accusa di essersi intestato una polizza-vita pagata coi fondi del partito, il senatore Gasparri ha di recente trovato modo di accostare il magistrato Raffaele Cantone a Pol Pot, sanguinario leader cambogiano responsabile tra il 1975 e il 1979 del massacro di circa un milione e mezzo di suoi connazionali, un quarto della popolazione del paese.
Di quali nefandezze si è macchiato il Presidente dell’Autorità anticorruzione? Ha avuto l’ardire di rispolverare in un’intervista una proposta che circola da tempo nel dibattito pubblico: la possibilità di estendere anche ai reati di corruzione misure già applicate nel contrasto alla criminalità organizzata, in particolare l’utilizzo dei cosiddetti “agenti sotto copertura” e delle intercettazioni ambientali, realizzabili cioè anche nei luoghi in cui non si ha certezza si stia commettendo un reato – negli ultimi anni ne avremmo sentite delle belle con qualche microfono posizionato negli uffici appalti dell’Expo, o nelle sontuose sedi del Consorzio Venezia Nuova per gli affari sporchi del Mose. Ma è soprattutto la proposta degli “agenti provocatori” a indignare il senatore forzista: “Proponga idee migliori invece di proporre metodi degni di Pol Pot”, è il lapidario giudizio di Gasparri che insiste: “Trovo personalmente folle l’idea di Raffaele Cantone di introdurre degli agenti provocatori, cioè degli esponenti dello Stato che fingendosi corruttori, andrebbero in pratica a sollecitare comportamenti illegali per poi punirli”. Sarebbe come “mandare in giro degli untori che alimentino illegalità”.
Con la sobrietà che da sempre lo contraddistinge il senatore Gasparri ci fa cogliere meglio di tanti slogan twittati da sponde governative la resistenza della classe politica – nella sua quasi interezza – alla formulazione di serie politiche anticorruzione. In effetti dopo il fuoco d’interdizione di Gasparri nessuna voce, né dalla maggioranza né dalle opposizioni, si è levata a difesa di Cantone e della sua proposta, neppure presa in considerazione dal piano di riforma dei reati di corruzione di recente predisposto dal Ministero della Giustizia. Eppure un provvedimento di estensione di alcuni strumenti utilizzati contro il crimine organizzato al misero armamentario anticorruzione rappresenterebbe un passettino nella giusta direzione, visto poi che le due patologie criminali si alimentano a vicenda.
Per rassicurare Gasparri gli si potrebbe ricordare che la figura dell’agente sotto copertura esiste nella maggior parte degli Stati – tra cui gli Stati Uniti culla della liberaldemocrazia. Il “test d’integrità” consiste nel sottoporre funzionari pubblici alla prova di una “ragionevole” tentazione tramite l’offerta di una tangente, per verificarne la tempra morale. Ne raccomanda caldamente l’adozione un manuale anticorruzione pubblicato dalle Nazioni Unite nel 2004, che ricorda tra l’altro i successi di questo strumento nella polizia di New York e di Londra (ma non quella di Phnom Pehn…): “La polizia di New York ha visto un drastico incremento nel numero di denunce di tentativi di corruzione da parte degli stessi agenti di polizia dopo che era iniziato il programma del test d’integrità”. Da un lato infatti la semplice consapevolezza che sono all’opera agenti sotto copertura accresce la propensione alla denuncia di qualsiasi profferta di tangenti, visto che i funzionari sanno di essere possibili cavie del test; dall’altro il timore di avere a che fare con un “falso” corruttore induce molti di loro a rifuggire le occasioni e a declinare gli inviti, anche quelli in cui l’interlocutore era invece un “corruttore onesto” e benintenzionato. La presenza di agenti provocatori va a sciogliere proprio quel collante fiduciario necessario a corrotti e corruttori per avviare e condurre felicemente in porto i loro affari. A ciò si aggiunga la possibilità di utilizzare il test d’integrità come fattore di valutazione positiva: respingere e denunciare la profferta di tangenti di un agente sotto copertura potrebbe diventare un elemento di merito per promuovere la carriera del funzionario onesto.
Il test d’integrità non è una panacea. Si è dimostrato efficace come meccanismo “calibrato” per mettere alla prova quei soggetti su cui erano già maturare riserve o sospetti, magari dopo denunce generiche. Può funzionare per portare alla luce episodi di corruzione spicciola, dove gli incontri sottobanco tra corrotti e corruttori sono sporadici e le risorse hanno controvalore limitato. Risulta pressoché inutile per una “pesca a strascico” nel vero mare magnum dell’italica corruzione, in quei contesti dove i rapporti tra i protagonisti sono cementati da una frequentazione consolidata nel tempo, e le poste in palio consistenti. Per capirci, tra gli uffici dell’Expo un ipotetico “agente provocatore” si aggirerebbe come un marziano, facile da identificare e tenere alla larga. Perché nelle strutture di potere che governano la corruzione sistemica non c’è spazio per l’improvvisazione. Come ha spiegato l’imprenditore Maltauro: “L’affidabilità la misuri sulle esperienze passate. Quando uno ha mantenuto i patti sai che puoi fidarti. Il rischio millantatori c’è sempre, però se sei nel giro impari a distinguere quelli con cui puoi andare tranquillo”.
Si tranquillizzi dunque il senatore Gasparri. Nessun agente sotto copertura si aggirerà in futuro negli uffici pubblici a proporre mazzette fittizie, neppure nel suo Senato dove pure, a giudicare da un processo in corso a Napoli, la compravendita degli onorevoli era diventata prassi corrente. In Italia i corrotti dovranno accontentarsi ancora per un bel pezzo solo delle vere tangenti…