Il 26 agosto 2004 l'Esercito islamico in Iraq annunciò l'esecuzione del giornalista. Oggi l'Italia cerca di riportare a casa le due giovani operatrici umanitarie rapite ad Aleppo. Le trattative, i riscatti, il ruolo dei servizi segreti. E i nodi irrisolti sulla morte del collaboratore di Diario, dal depistaggio del finto video all'agente Farina-Betulla, all'"evento improvviso". Lo sfogo della moglie Giusi
Era il 26 agosto del 2004 quando l’Esercito islamico in Iraq – che con l’odierno Isis mostra più di una semplice assonanza – annunciò di aver assassinato Enzo Baldoni, pubblicitario, giornalista per passione e voglia di capire il mondo. Dieci anni dopo, l’Iraq è ancora nel caos e l’Italia di nuovo alle prese con i sequestri di persona a possibile sfondo jihadista.
TRATTATIVE E RISCATTI. Fu nell’orgia di sangue che seguì l’invasione Usa dell’ex regno di Saddam Hussein che il nostro Paese sviluppò una sua politica dei sequestri basata sulla trattativa con i rapitori, il pagamento di mediatori e di sostanziosi riscatti e la concessione di contropartite politico-umanitarie di varia natura. Spesso in lotta con gli americani, fautori della linea dura, anche se le nostre truppe partecipavano a tutti gli effetti all’occupazione con il contingente di stanza a Nassiriya, nel sud sciita, obiettivo del devastante attentato del 12 novembre 2003. Così tornarono a casa sane e salve Simona Pari e Simona Torretta – dette “le Simone” – le operatrici umanitarie di Un ponte per… prelevate da un commando a Baghdad l’8 settembre, un paio di settimane dopo l’assassinio di Baldoni. E, più tardi, Giuliana Sgrena, ma con il sacrificio finale di Nicola Calipari, dirigente del Sismi freddato a un posto di blocco dei militari Usa mentre accompagnava l’inviata del manifesto, appena rilasciata, all’aeroporto della capitale irachena.
Ma i nostri servizi erano già in campo prima del caso Baldoni. La prima trattativa portata a termine con (parziale) successo fu quella per i contractor scomparsi nell’aprile del 2003: furono riportati a casa Maurizio Agliana, Salvatore Stefio e Umberto Cupertino, ma non Fabrizio Quattrocchi, ucciso dai sequestratori, che si presentarono come le “Falangi verdi di Maometto”. I tre furono liberati da un blitz degli americani – in una casa vuota e senza spargimento di sangue – che ai più parve una messinscena per coprire una trattativa, in una fase in cui Washington adottava una politica più morbida in un Paese ancora apparentemente sotto controllo. E lo Stato fu molto rapido nel riprendersi indietro due agenti del Sismi, sequestrati in quegli stessi giorni di aprile, anche in questo caso con una valigetta farcita di dollari. Una storia emersa solo nei mesi successivi, e in pochi frammenti.
OSTAGGI IN VENDITA. Già in quella stagione emerse una pratica oggi rievocata nel caso delle due operatrici di “Rose di Damasco” rapite in Siria, Vanessa Marzullo e Greta Ramelli: la vendita di ostaggi occidentali da gruppi locali – spesso privi di connotazioni politico-religiose – a sigle di maggior spessore che sanno come farli fruttare sul mercato del terrore. Il fanatismo islamico è solo una delle facce di queste formazioni, buono per reclutare carne da macello e per spaventare le opinioni pubbliche dei Paesi impegnati sul campo, mentre gli obiettivi perseguiti sono più concreti e legati a logiche di potere locale. Dopo la liberazione, Giuliana Sgrena raccontò di essere stata costretta dai rapitori a drammatizzare il più possibile il celebre video in cui, in lacrime, invocava l’aiuto del compagno Pier Scolari, che in effetti ebbe un grande impatto emotivo in Italia e non solo: “Stavo molto meglio di quanto dessi a vedere”, rivelò a Liberation, con inevitabili code polemiche.
BALDONI E IL DEPISTAGGIO DEL VIDEO. Giusi Bonsignore è la moglie di Enzo Baldoni. “Dieci anni dopo”, dice a ilfattoquotidiano.it, “non voglio più sentire certe falsità sulla sua morte”. Il riferimento è a un fantomatico video in cui si vedrebbe il giornalista bendato che reagisce contro i suoi sequestratori, ingaggia una colluttazione e viene freddato a colpi di arma da fuoco. Il presunto video non è mai saltato fuori, eppure – come accertò all’epoca il settimanale Diario, diretto da Enrico Deaglio, con il quale Baldoni collaborava – furono i servizi segreti italiani a propalarne l’esistenza la sera stessa del 26 agosto, quando al Jazeera annunciò la morte dell’ostaggio. La velina fu passata alle agenzie di stampa e proposta direttamente ai pochi quotidiani che a quell’ora tarda potevano ancora metterla in pagina. Il Corriere della sera la pubblicò, Repubblica la bollò subito come una bufala.
Sabato 28 agosto una dettagliata ricostruzione del video apparve su Libero a firma di Renato Farina. Secondo il quale i sequestratori avevano deciso di tenere per sé quelle immagini, senza renderle pubbliche, perché non più funzionali “alla propaganda”. Farina, però, non spiegava chi e come aveva potuto vederle. Solo qualche anno più tardi si scoprirà che in quel momento Farina è arruolato, proprio sullo scenario iracheno, come “agente Betulla” nel Sismi diretto da Nicolò Pollari e Marco Mancini (quest’ultimo fu immortalato a Ciampino sull’aereo che riportava a casa le “Simone” il 28 settembre dello stesso anno).
La storia del “video invisibile” – così lo ribattezzò Diario – ha tutta l’aria di un depistaggio. Per coprire che cosa? Dieci anni dopo, le carte dell’inchiesta sul sequestro e sulla morte di Enzo Baldoni giacciono ancora in qualche cassetto della Procura di Roma. A oggi, l’unica immagine di Baldoni ucciso è quella ricevuta (e diffusa solo in un secondo tempo) da al Jazeera insieme alla rivendicazione dell’Esercito islamico: un singolo fotogramma del suo corpo semisepolto.
SCELLI, LIBERO E “LE VACANZE INTELLIGENTI”. Enzo Baldoni fu sequestrato il 20 agosto 2004 nei pressi di Latifiya, nel famigerato triangolo sunnita, mentre tornava verso Baghdad da Najaf, città sciita all’epoca sotto assedio, con un convoglio della Croce rossa italiana. La stagione del terrore contro gli occidentali non era ancora iniziata – l’omicidio del collaboratore di Diario segnò un punto di svolta – e nel Paese in guerra circolavano ancora in relativa libertà giornalisti e operatori umanitari. Il suo accompagnatore locale, Ghareeb, venne ucciso sul posto dopo lo scoppio di un ordigno. Il convoglio proseguì. Di Baldoni non si seppe più nulla.
Nei primi giorni, i più preziosi per tentare un salvataggio, il commissario straordinario della Croce rossa Maurizio Scelli (anche lui, come Farina, diventerà poi parlamentare del Pdl) accredita la versione di un Baldoni che imprudentemente si è avventurato da qualche parte in solitaria caccia di scoop. Libero – di nuovo – dedica al giornalista articoli di Farina e Vittorio Feltri del seguente tenore: “Vacanze intelligenti” e “Il pacifista col Kalashnikov”. Un trattamento simile toccherà a Simona Pari e Simona Torretta dopo la liberazione: colpevoli di aver affermato di essere state “trattate bene” dai sequestratori, su Libero diventeranno “le Vispe Terese”. “Non posso ancora dimenticare quella ferocia”, spiega la moglie Baldoni. Il 24 agosto al Jazeera mostra il giornalista in un video di rivendicazione dell’Esercito islamico in Iraq che attacca “il criminale presidente del consiglio Berlusconi” e chiede il ritiro delle truppe italiane “entro 48 ore”.
Anche su Scelli, un altro protagonista delle trattative per il rilascio degli ostaggi italiani in Iraq, almeno sul versante mediatico, Giusi Bonsignore consegna un giudizio drastico: “Per anni ci ha tenuto al guinzaglio con la promessa che avrebbe riportato a casa i resti di Enzo, di fatto precludendoci altre vie istituzionali. Alla fine ci sono riusciti, senza tanto sfoggio, i carabinieri del Ros nel 2010″. Il cranio mostra un foro compatibile con un colpo di arma da fuoco sparato dall’alto in basso, come in un’esecuzione. Anche per Baldoni furono avviati contatti sul campo e si aprì qualche barlume di speranza. Ma dalla rivendicazione alla notizia dell’esecuzione passarono soltanto due giorni.
ESERCITO ISLAMICO, MA NON SOLO. Giorni in cui anche il Dgse, il servizio segreto francese, era alla ricerca di un contatto con l’Esercito islamico in Iraq, che sempre il 20 agosto e nella stessa zona aveva sequestrato due giornalisti, Christian Chesnot e Georges Malbrunot. Liberati dopo quattro mesi di prigionia in seguito a una lunga trattativa diretta tra i servizi francesi e l’Esercito islamico, Chesnot e Malbrunot pubblicheranno poi una controinchiesta sui retroscena del loro sequestro (“Prigionieri in Iraq”, Il Saggiatore 2005). L’Esercito Islamico in Iraq, raccontano, è una potente organizzazione di matrice sunnita radicata nella zona di Falluja, che mette insieme jihadisti ed ex ufficiali baathisti delle forze di sicurezza di Saddam Hussein, ex nemici ora alleati nello sconquasso dei vecchi equilibri provocato dall’invasione americana.
Diversi analisti vedono una composizione simile nell’Isis (Stato islamico di Iraq e Siria) che sta mettendo a ferro e fuoco i due paesi e ha rivendicato, fra l’altro, la decapitazione del giornalista americano James Foley. Secondo il Guardian, sarebbe sempre l’Isis a tenere prigioniere Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, ma la circostanza è stata smentita sia dal quotidiano panarabo al Quds, secondo il quale si trovano nelle mani della brigata islamica Ahrar Sham, sia dal governo italiano, per bocca del sottosegretario agli Esteri Francesco Giro. Resta però la preoccupazione che possano essere cedute ai fondamentalisti prima che le trattative sortiscano il loro effetto.
Baldoni, apprendono Chesnot e Malbrunot da un dirigente dell’Esercito islamico, sarebbe stato ucciso perché ritenuto “una spia”. Anche per il giornalista italiano era in corso una trattativa, che però si è interrotta per un evento imprevisto. E’ questo l’elemento che ritorna in diverse ricostruzioni di chi ha lavorato sul caso, e in questo evento – a oggi ignoto – sta probabilmente la chiave della morte del pubblicitario-giornalista. Lo stesso 26 agosto, un mediatore scovato dai francesi si presenta a Frank Gelet, numero due dell’ambasciata francese a Baghdad: “La Fiat è rotta“, dice, “ma le due Peugeot sono in buono stato”. A conclusione della loro inchiesta, i due reporter affermano di non conoscere i contenuti dell’accordo che li ha riportati a casa, ma si dicono convinti che contenesse una parte politica che aveva a che fare con una sorta di riconoscimento della resistenza irachena ai tavoli internazionali.
Dieci anni dopo, “mi sento con due cuori”, conclude Giusi Bonsignore. “Da un lato vorrei che Enzo fosse un ricordo solo nostro, della famiglia. Dall’altro sento che non siamo soli perché ricevo tanto messaggi di chi non l’ha dimenticato e di chi lo ha conosciuto dopo, attraverso il suo lavoro”.