Gli italiani reclutati dai terroristi dell’Isis già pronti a morire in Siria e Iraq per la Jihad, la “guerra santa” islamica, sarebbero circa cinquanta. Altri duecento sono rientrati in Italia dopo un addestramento e svolgerebbero servizi di logistica e reclutamento. Lo ha rivelato il ministro dell’interno Alfano citando dati dei servizi segreti italiani. L’80 per cento di loro non sono figli di immigrati, ma italiani convertiti all’Islam da poco. Sono maschi e giovanissimi, tra i 18 e i 25 anni.
Quali tecniche psicologiche possono essere così persuasive da riuscire a trasformare in kamikaze dei giovani occidentali attraverso un computer e in poco tempo?
Non c’è un documento ufficiale che espone queste tecniche, ma alcuni rapporti dell’Onu e informazioni dell’intelligence dei vari paesi apparse sui giornali internazionali illustrano gli strumenti online usati dai reclutatori. Ho riscontrato che questi strumenti e il modo in cui vengono usati sono un mix di pratiche tipiche dei gruppi religiosi, dalla politica e dalle aziende.
Una volta individuati mi è stato dunque possibile estrapolare le tecniche psicologiche usate dai terroristi per reclutare gli occidentali su internet.
Per farsi conoscere il primo passo è attirare l’attenzione. L’Isis oggi, ancor più di quanto facesse Al Qaeda, usa i social network, nei quali fa circolare contenuti virali (che vengono cioè condivisi e visti da milioni di persone in poche ore). Per essere virale un contenuto deve provocare un alto tasso di eccitamento. Questo è necessario per provocare una reazione dell’utente, che quando si è su un social network di solito consiste in una condivisione o un commento. Fra le emozioni più efficaci sui social network per stimolare la condivisione ci sono la collera, l’ansia e l’indignazione. Purtroppo i contenuti che questi terroristi rilasciano, carichi di queste emozioni negative, sono i video delle esecuzioni. Essendo sensazionali e raccontando fatti gravi vengono inoltre amplificati dai media tradizionali come Tv e stampa. Questa propaganda attecchisce soprattutto sugli individui più vulnerabili -anche per l’età- e marginalizzati nella società. Fa leva sui sentimenti di ingiustizia, esclusione o umiliazione provati da alcuni per circostanze della propria vita, problemi familiari o economici. Subentra così un processo di identificazione con la minoranza ribelle, la quale si scaglia per vendetta contro la stessa società che causa il disagio che il giovane prova. Per esempio Bin Laden veniva percepito come un uomo solitario in una caverna, quindi come un disperato, un poveretto. Più gli Usa demonizzavano Bin Laden, più lui emergeva come un’icona che simboleggiava la lotta del debole contro il forte.
Isis oggi offre a questi emarginati la possibilità di vendicarsi e di dare un senso alla propria vita, percepita come inutile. Quest’ultimo aspetto viene enfatizzato dalla glorificazione che gli estremisti fanno dei martiri nei loro video e discorsi, narrandone in modo epico le eroiche gesta.
Ma c’è una tecnica ancora più potente che è in grado di lavorare su ragazzi normali, senza problemi psicologici e perfettamente integrati nella società. È la peculiarità, il distintivo di questi gruppi: il terrore. In che modo il terrore può trasformare un giovane italiano in un kamikaze?
Questi video sono diffusi per seminare insicurezza, paura, e senso di impotenza fra la popolazione. La reazione che si può avere di fronte a una persona o gruppo di persone che ci minaccia di violenza è simile a quella che viene comunemente definita sindrome di Stoccolma. Con l’unica differenza che avviene a distanza.
La sindrome di Stoccolma è quella reazione emotiva che porta alcune persone vittime di rapimento a sviluppare un legame positivo col rapitore, di intesa, affetto, a volte perfino di amore, collegato al sentimento negativo verso la polizia. È un paradosso psicologico, eppure i casi sono frequenti. Il processo che scatta nella sindrome di Stoccolma e nella ‘variante online’ del nostro caso è questo: il ragazzo davanti alle immagini violente e alle promesse di attentato nella propria città si sente minacciato. Il carnefice è a distanza, è vero, ma senti che può agire proprio sotto casa tua. Il pericolo che percepisci è dunque altrettanto vicino a quello che sentiresti se fossi vittima di una rapina in banca o di un sequestro dal vivo.
Di fronte a tale stress emotivo il meccanismo di difesa più frequente è la regressione. Si torna emotivamente bambini, a un’età lontana dal momento attuale che ci fa soffrire. In questo stato è facile comprendere quanto si diventi influenzabili. Regredire emotivamente a un’età infantile comporta inoltre un senso di dipendenza nei confronti della figura forte: ora il terrorista, ieri papà o mamma. Il terrorista appare più forte del nostro governo, il quale agisce in modo incerto, in ritardo, attendendo autorizzazioni e viene sorpreso in casa propria, nei suoi luoghi simbolo.
Ma il meccanismo difensivo chiave che scatta in questi casi e porta alla conversione è l’identificazione col carnefice. Diventando un suo simile non sei più un suo nemico. Questo ti permette di sfuggire all’ira e al danno potenziale che potrebbe esserti inflitto.
Se ci identifichiamo o dipendiamo dal carceriere inoltre odieremo chi vuole fargli del male: gli Usa e l’Occidente in generale. L’odio verso il proprio Paese potrebbe svilupparsi anche prima dell’identificazione col terrorista, dato che dopo lo choc subìto a causa della propaganda ogni nuova minaccia di guerra al terrorismo sarà vissuta con stress dal ragazzo, poiché aumenta il pericolo di attentati. Dare agli estremisti la libertà che vogliono invece li calmerebbe. Ci saranno dunque problemi in comune, cosa che porterà a stringere il legame, a comprendere le motivazioni che spingono agli attentati.
Un modo in cui il giovane impaurito può cercare di farsi amico il carnefice è per esempio attraverso una donazione di denaro. I siti e i forum dell’Isis sparsi per la rete permettono di contribuire economicamente alla causa.
L’accoglienza che trovano gli occidentali che si avvicinano alla Jihad è, contrariamente alle minacce, amorevole. Nelle sette l’accoglienza calorosa di un individuo esterno è chiamata love bombing. Nel nostro caso contribuisce allo sviluppo della sindrome, in quanto la vittima, aspettandosi violenza, è riconoscente al carceriere anche per ciò che non gli fa.
Ora che la nuova recluta virtuale ha sposato la causa dell’Isis, non è ragionevolmente ancora pronta a sacrificare la vita. Inizia dunque il processo di radicalizzazione.
La radicalizzazione è il processo di indottrinamento che accompagna la trasformazione delle reclute in individui determinati ad agire con violenza sulla base di ideologie estremiste. Il processo di radicalizzazione è graduale ed inizia in modo subdolo.
Molto del materiale di propaganda che può scaricare dagli appositi forum chi si avvicina all’Isis è studiato per essere familiare a un ragazzo occidentale: immagini, video musicali e videogames che usano una tecnica che ritroviamo anche in comunicazione politica, chiamata adbusting. Consiste nel prendere materiale pubblicitario del nemico e modificarne il messaggio a proprio favore. Si usano quindi gli stessi colori, font, slogan e immagini ai quali siamo abituati.
Per esempio, il celebre videogame Call of Duty vedrà al posto dei marines americani dei ragazzi imbottiti di esplosivo pronti ad andare in paradiso; la locandina del film 300 diventerà “800” con riferimento all’eroica conquista di Mosul per la quale l’Isis schierò solo 800 uomini contro le forze irachene che ammontavano a più di 30.000.
Dopo questi primi passi nella cultura jihadista, utili a desensibilizzare il giovane alla violenza, si procede in modo spontaneo alla lettura di manuali dettagliati su come combattere, costruire armi, pianificare attentati facilmente scaricabili dai siti del gruppo.
Sui forum nei quali il ragazzo di casa nostra si è formato e trasformato troverà le rotte per raggiungere la Siria e l’Iraq con qualunque mezzo, anche in auto, e sui social network o alcune moschee avrà tutta l’assistenza necessaria per fare “il suo dovere”.