Intervista al regista, che non ha dubbi: "Il punto di non ritorno è il declino di Berlusconi. Il paese si è visto proporre i professori e ha detto no. Renzi? E' da reality"
Nei secchi d’acqua gelida e nelle giacche zuppe ai tempi del social network, Enrico Vanzina scorge “un’avvisaglia di totale rincoglionimento”. Agosto è al tramonto: “Ma se dobbiamo parafrasare il commendator Covelli in vacanza a Cortina, quest’estate non se la semo ancora levata dalle palle”, Lionel Richie in sottofondo canta All night long e anche il regista di quasi 100 commedie, forse, è stanco di ballare: “Questo paese è diventato la landa del cazzeggio continuo senza mai un istante in cui ci si fermi a riflettere. Ridono tutti, non si capisce bene per che cosa. In radio trionfano, senza un’unghia del suo talento, imitatori di Fiorello a vario titolo. In giro si sentono storiacce di guerra e decapitazioni, ma noi perdiamo la testa solo per la battuta. Fino all’autunno che immagino un po’ meno allegro del presente ci attaccheremo a Flaiano e considereremo la situazione grave, ma non seria. Dopo, si vedrà”. Tra famiglie in posa per Alfonso Signorini e ministre sul lettino (“Il politico in ferie, dal trattore di Di Pietro in poi però, l’abbiamo sempre visto”) Vanzina traccia la mappa delle maleducazioni stagionali: “La mia personale palma della cafoneria va alla vecchia borghesia italiana in volontario esilio a Saint-Tropez. Sono stato tre giorni e ho visto cose che di umano hanno davvero poco. Bentley, Ferrari, ostentazione, belle ragazze in vetrina e tutto intorno una percepibile arietta da ultima danza sul Titanic. Gente che di per sé non lo sarebbe, diventa cafonissima. Diserta i porti sardi ormai in mano ai soli rubli russi e corre a spendere in Francia. ‘Se è proprio l’ultima estate – sembravano dire sul molo – godemosela’”.
C’è da ridere o da piangere?
Da raccontare ancora. Per anni la commedia all’italiana è stata bistrattata dai seriosi simposi degli intellettuali che a tutto ciò che esulava dal loro circolo, riservavano il disprezzo che si riserva alle macchiette e ai cialtroni. Ora, in forma diversa, anche se la situazione generale mette i brividi, si gode la sua rivincita.
Lei però sostiene che si possa raccontare ancora.
Solo perché la commedia ha sempre raccontato le tragedie con il sorriso. Poi, ovvio, si esagera. Il cinema italiano produce quasi solo film comici. Un abuso che a volte fa rimpiangere Antonioni.
A proposito di avventure, in estate, vestendo fogge improbabili, hanno imperversato i politici.
Si sono adattati al nuovo linguaggio seriale. Tutti vogliono il loro reality e i politici non fanno eccezione. Vanno a farsi prendere in giro a Striscia o a Le Iene, diventano attori comici a loro volta. Il problema è che la politica non può essere soltanto avanspettacolo. Poi c’è il tema dell’autoreferenzialità.
Affrontiamolo.
Prenda Renzi che, ci tengo a dirlo, per me è un bravo ragazzo ed è tutt’altro che un cafone.
Renzi, preso.
Ecco, Renzi si è dovuto adattare ai social network e ineluttabilmente, visto che l’unico imperativo contemporaneo sembra essere rimandare in continuazione la propria immagine impegnata in una, dieci, cento esistenze, ha creato a sua volta la propria serialità. Renzi allo stadio, Renzi Scout, Renzi in Iraq. A volte va bene, a volte meno. Non importa. L’unica cosa che conti è esserci e riaffermare un’identità. Sotto Renzi, poi, gli italiani si comportano esattamente nello stesso modo. E in una realtà parallela, che nulla ha a che vedere con il reale, nuotano felici senza alcuna evoluzione.
Perché?
Perché nell’autonarrazione non c’è mai un passo in avanti nello stile del racconto. Descriviamo noi stessi, ma lo facciamo sempre nello stesso modo. Bisognerebbe uscire dall’ossessione, ma a dire il vero non so come.
Siamo passati dal doppiopetto di Silvio B. al giubbotto Fonzie di Matteo R.?
Una nuova stagione, con un altro protagonista vestito diversamente. Berlusconi è un laico travestito da democristiano, Renzi invece è proprio un democristiano impegnato a parlare con una sinistra più perbenista di lui. Entrambi sanno comunicare, e bene, con la gente normale. In qualche modo si somigliano e Berlusconi, per uno costretto a far convivere tante anime come Renzi, è insieme spettro e modello.
I cafoni del 2014 somigliano a quelli di ieri?
Neanche un po’. Il cafone di ieri, osservato con orrore da chi nel nuovo ricco vedeva l’usurpatore, era ignaro della propria cafoneria. La sventolava semplicemente, senza curarsi del contesto.
Il cafone contemporaneo?
È compiaciuto, tronfio, perfettamente consapevole di esportare un piccolo modello di successo. Se lo tiene stretto, non dubita mai. È terribile? Sì, lo è. Ma ormai il Cafonal è stato sdoganato, difficile invertire la tendenza.
Colpe? Responsabilità?
Posso osare un paradosso?
Prego.
Credo che il punto di non ritorno si sia verificato con il declino di Berlusconi. Il paese si è visto proporre i bocconiani e ha detto no. Non conta che Mario Monti sia stato bravo o pessimo e io sicuramente non ce l’ho con lui, ma quell’epoca è stata il manifesto della noia.
E come ha reagito l’italiano al manifesto della noia?
“Sapete che c’è?” si è detto un vastissimo pezzo di Paese: “Meglio il cafonal della tristezza, meglio morire coatti che vivere nell’autoflagellazione, meglio l’allegria. Non abbiamo più niente e forse moriremo affogati nei debiti, ma almeno lo faremo ridendo”.
Da il Fatto Quotidiano del 26 agosto 2014