Al centro della vita del cattolico autenticamente credente dovrebbe esserci l’amore. Amore per il prossimo e rispetto per l’amore del prossimo. O, almeno, così ci insegnano sin da bambini.
E’ esattamente con questo spirito che 456 giovani scout, espressione di altri 30.000 iscritti di tutta Italia, hanno redatto la Carta del Coraggio, un documento che esprime posizioni che in realtà dovrebbero essere proprie di ogni cattolico vero. Vi si chiede ai vertici dell’Agesci (l’Associazione Guide e Scout Cattolici Italiani) di aprirsi all’amore, riconoscendo che dove c’è amore non può esserci peccato, e che quindi anche due persone dello stesso sesso o due conviventi o una persona divorziata devono avere la possibilità di vivere nella comunità degli scout in piena uguaglianza e dignità. Le parole d’ordine del documento sono, in definitiva, non discriminazione e accoglienza.
Si tratta indubbiamente di un passo in linea coi tempi.
Come la società italiana è molto più avanti rispetto ai suoi governanti (e verrebbe da dire per fortuna!), così la base dell’Agesci, con le sue decise richieste di apertura provenienti “dal basso”, esprime posizioni molto più in linea con una genuina politica dell’amore (o, per chi ci crede, dell’Amore con la A maiuscola) rispetto a quelle della Chiesa cattolica, quella ufficiale e del Catechismo, che ancora risale, piaccia oppure no, a due papi fa, Chiesa che ancora oggi, purtroppo, è arroccata sull’intransigente intolleranza nei confronti delle persone e, cosa ancora più grave, nella totale ignoranza – sicuramente colpevole – rispetto alle esperienze di vita di ciascuno, ponendosi invece a strenua difesa della dottrina, dell’ortodossia e dunque della conservazione più imbalsamata e lontana dalla vita reale.
Ma per carità, non sia mai che la Chiesa, che spesso proprio in alcune associazioni trova sia la sua parte più vivida ma anche il suo lato più intransigente e, lo si dica senza timore, omofobo, si accolli la responsabilità di ciò che le chiedono a gran voce i giovani scout italiani. Non sia mai che la Chiesa si apra davvero al mondo com’è oggi senza mostrare la propria nostalgia del mondo com’era tremila anni fa, ai tempi del Levitico o, in epoca più prossima ma nondimeno molto lontana dalla nostra, nell’era di San Paolo. Non sia mai che rinuncino una volta per tutte al mondo escludente e vetusto nel quale è stata confezionata.
E infatti non sono mancati i distinguo, ad esempio, dell’Associazione Pro Vita, il cui nome sembra denigrare come cadaverico tutto ciò che non si allinea a suoi schemi.
“La nostra proposta”, ribattono sul loro sito internet traducendo la presa di distanze dalla Carta del Coraggio alcuni vertici scout, “è mirata unicamente ad educare, secondo gli insegnamenti autentici di Cristo, buoni cristiani e buoni cittadini, capaci un giorno, con spirito critico e con una solida base valoriale cattolica, di compiere le scelte che più riterranno opportune per realizzarsi pienamente nella loro Vocazione, sia essa nella vita religiosa, nel vincolo sacramentale della famiglia naturale“. Come se Cristo non privilegiasse proprio gli esclusi, quelli che nel mainstream sociale della sua epoca non volevano o non potevano rientrare!
No, mi spiace. Non v’è nulla di amorevole (o Amorevole) in questa risposta. Niente, neppure una briciola, che sia in linea con gli insegnamenti di Gesù. Nessun amore, né rispetto, per gli scout omosessuali, per i gay, le lesbiche, i divorziati o i conviventi che fanno parte, anche orgogliosamente, dell’Agesci.
I continui niet delle gerarchie e dei vertici delle associazioni è lo scotto che, purtroppo, questi giovani scout italiani devono ancora pagare per il coraggio mostrato con la loro Carta, alcuni di loro per la loro stessa esistenza. Un coraggio la cui unica consolazione risiede nella semplice constatazione che, presto, il futuro sarà loro. Come scrive Martina Colomasi nel suo blog, “dovremo prendere coscienza che quei 30.000 ragazzi sono i capi scout di domani e che dunque non c’è soluzione al cambiamento“.
Coraggio significa anche guardare al domani senza necessariamente indossare le lenti di chi, per professione, mente spudoratamente facendo finta che mentire non sia peccato.