Dice Mario Martone che tra Giacomo Leopardi e Pier Paolo Pasolini ci sono “vicinanze inequivocabili”, dunque e non c’è da stupirsi della loro presenza in contemporanea alla Mostra del cinema di Venezia con i due biopic in lizza per il Leone d’oro: Il giovane favoloso, sulla vita di Leopardi, di Martone stesso, e Pasolini diretto da Abel Ferrara.
Ora, va bene che siamo in tempi di larghe intese, ma quella tra Leopardi e Pasolini proprio no. Non ci sono due poeti, e due uomini, più agli antipodi. Piuttosto, quello tra Leopardi e Pasolini è un derby perfetto, all’ultimo sangue. L’Ottocento contro il Novecento. L’idillio contro la nevrosi. Il pessimismo della ragione contro l’impegno della volontà. Il solitario contro l’incantatore. Il metafisico contro il politico.
Certo, essendo due grandi, entrambi autorizzano alle interpretazioni più diverse, e non da oggi. Fin dal liceo abbiamo imparato a conoscere due Leopardi, quello nichilista del Dialogo di Tristano e di un amico e quello quasi progressista della Ginestra. Quanto a Pasolini, è proverbiale il suo essere terra di conquista; padre nobile della sinistra (per le sinistre); anzi no, della destra (per le destre). Quasi come Mastella; sempre a sua insaputa, però. Forse allora più utile è chiedersi quale Leopardi e quale Pasolini ci aspettano; perché quanto a libere interpretazioni tutto è possibile, nel Paese in cui Silvio Berlusconi è riuscito a farsi passare come l’erede di De Gasperi.
Per il film su Leopardi, oltre a qualche frammento caramellato, da fiction in cofanetto regalo, ci aiutano le dichiarazioni di Martone al Venerdì di Repubblica. Quel che lo ha folgorato è “il pensatore ribelle, ironico, socialmente spregiudicato”. Un modernista che anticipa addirittura Kurt Cobain: “Giovane soprattutto”. Sembra quasi il ritratto di un rottamatore nato, uno che non si è spento a 39 anni stremato dalla malattia e dall’infelicità, ma che poteva diventare presidente del Consiglio (o almeno il suo spin doctor), se solo ci fosse stata l’Italia.
Il Pasolini isolato da Ferrara è invece l’ultimo, ma forse sarebbe meglio dire l’estremo. Quello degli Scritti corsari sul Corriere, dell’intervista a Furio Colombo “Siamo tutti in pericolo”, di Petrolio, dell’abiura dalla trilogia della vita. L’intellettuale ormai certo che dalla metà degli anni Cinquanta all’inizio dei Settanta il suo Paese ha visto recise in modo irreversibile le radici e l’identità. Una voce radicale che vede nel fascismo il vero volto dell’italianità e nella crescita del capitalismo avanzato la fine di ogni umanesimo. Un negatore del mondo moderno a cinque stelle, verrebbe da dire.
Se le cose stanno così, è evidente che nel derby di Venezia il Leopardi renziano dovrebbe stracciare il Pasolini grillino. Vedremo. I film passano, la poesia resta. Ma se dovessimo augurarci qualcosa da comuni mortali, ci accontenteremmo di vedere in Renzi un po’ della profondità leopardiana, in Grillo un po’ della lucidità pasoliniana. Entrambi ne avrebbero bisogno; molto più di quanto Leopardi e Pasolini non abbiano bisogno di loro.
Il Fatto Quotidiano, 26 agosto 2014