Il Corriere del Veneto rivela un'inchiesta della Dda di Venezia. Gli inquisiti sono cittadini stranieri residenti nella regione, che si sarebbero dati da fare per trovare nuovi "soldati" islamici da inviare sui fronti caldi, fra cui la Siria. In queste ore è in corso un monitoraggio del Ros su una ventina di potenziali jihadisti di origine straniera e residenti nel nord-est. Nei giorni scorsi il Dipartimento di pubblica sicurezza aveva inviato a tutti i prefetti e i questori una circolare disponendo di innalzare il livello di vigilanza
Cinque persone residenti in Veneto risultano indagate nell’ambito di un’inchiesta per terrorismo aperta dalla Procura distrettuale di Venezia e condotta dai Ros. Si tratterebbe di elementi sospettati di indottrinare e reclutare forze per i gruppi della Jihad islamica che combattono sui fronti caldi del Medio Oriente. A rivelare l’inchiesta è oggi il Corriere del Veneto. Le indagini sarebbero legate alla vicenda di Ismar Mesinovic, il bosniaco residente nel bellunese morto in Siria all’inizio dell’anno in combattimento dopo aver aderito alla Jihad. Secondo quanto si è appreso, gli indagati sarebbero tutti originari dei Balcani.
Il reato ipotizzato è il 270 bis, che punisce le associazioni terroristiche. I cinque indagati , scrive il Corriere, sono stranieri, “quasi tutti residenti in Veneto”. Non si tratterebbe di personaggi direttamenente impegnati nei combattimenti o intenzionati a partire per i fronti caldi, piuttosto fiancheggiatori e reclutatori, figure chiave che si muovono per trovare nuovi “soldati” da votare alla causa della jihad, “a cominciare proprio dalla Siria”, scrive il Corriere veneto. “E in almeno un caso ci sarebbero riusciti”. Dopo l’allerta terrorismo lanciata nei giorni scorsi dal Ministero dell’Interno, si era intensificata in Veneto l’attività di intelligence sui centri islamici e sui soggetti considerati pericolosamente vicini al fondamentalismo.
In queste ore è in corso un monitoraggio del Ros su una ventina di potenziali jihadisti di origine straniera e residenti nel nord-est. Si tratta di militanti che potrebbero assumere il ruolo di reclutatori di aspiranti jihadisti da indottrinare ed eventualmente inviare nelle zone di conflitto, a cominciare dalla Siria e dall’Iraq. Nei giorni scorsi, sull’onda delle preoccupazioni sotto il profilo della sicurezza, legate all’avanzata in Iraq delle milizie dell’Isis, il Dipartimento di pubblica sicurezza aveva inviato a tutti i prefetti e i questori una circolare disponendo di innalzare ulteriormente il livello di vigilanza alle sedi istituzionali e a tutti gli obiettivi “sensibili” (aeroporti, stazioni, luoghi di aggregazione, scali commerciali) a rischio di attentato terroristico. Secondo le ultime stime, sarebbero almeno una quarantina i militanti islamici partiti dall’Italia per andare a combattere in Siria in nome della Jihad.
Quello dei profughi “non è solo un problema di accoglienza – attacca il sindaco di Padova Massimo Bitonci – non possiamo più permetterci, anche alla luce di quanto sta succedendo in Libia, di trascurare il rischio che chi sbarca possa arrivare a compiere azioni terroristiche o ad ingaggiare guerriglieri, come sospettano i Ros e la Digos”. “Chiedo al ministro Alfano – continua Bitonci – così come ha visitato Lampedusa, di venire in Veneto e rendersi conto con i suoi occhi di quale sia il rischio per la cittadinanza, vista la facilità, già documentata, con cui gli estremisti islamici fanno breccia e raccolgono pericolosi consensi”.
La natura del fenomeno jihadista in Italia ha caratteristiche proprie rispetto ai Paesi dell’Unione Europea. Mentre negli Stati più sviluppati del continente si è arrivati alla seconda generazione di immigrati e “i primi network jihadisti erano operativi già nei primi anni Novanta” si legge nel dossier “Il jihadismo autoctono in Italia” firmato dallo studioso Lorenzo Vidino, in Italia la seconda generazione sta raggiungendo ora l’età adulta e il nostro Paese è interessato prevalentemente dal fenomeno del cosiddetto “autoctono”: immigrati di seconda generazione, cui si aggiunge un numero ridotto di convertiti, che agiscono autonomamente e prevalentemente su internet e, in alcuni casi per ora limitati, decidono di raggiungere il Medio Oriente per unirsi alla Jihad. Secondo l’autore, in Italia i casi di jihadisti attivi sarebbero poche decine, qualche centinaio i simpatizzanti.
In Italia “al fianco dei network jihadisti “tradizionali” ancora attivi in Italia – si legge nel dossier – è chiaro che sono presenti sia attori indipendenti (i cosiddetti lone actor), sia piccoli nuclei di soggetti che sono cresciuti in Italia, che si sono radicalizzati autonomamente, operando indipendentemente da moschee e altri gruppi strutturati, e che dimostrano forte presenza sul web. In ogni caso si sta parlando di un fenomeno dalle dimensioni ancora ridotte rispetto ad altri Paesi dell’Europa occidentale”.
Il caso spartiacque nella gestione e nella considerazione del fenomeno in Italia avvenne a Milano “il mattino del 12 ottobre 2009 – si legge ancora nel dossier di Lorenzo Vidino – presso la caserma Santa Barbara”. Quella mattina, varcato il cancello della caserma, Mohammed Game, classe 1974, originario della Libia, tentò di farsi esplodere, ma le condizioni precarie in cui era stato tenuto esplosivo impedirono al materiale di deflagrare al meglio e a pagarne le conseguenze maggiori fu lo stesso Game, che perse una mano e rimase gravemente ferito agli occhi. “Nonostante le ferite, l’uomo riuscì a sussurrare al primo poliziotto che lo soccorse: “Ve ne dovete andare via dall’Afghanistan”. Game, risultò dalle indagini, “era un avido consumatore di materiale jihadista” su internet”. L’analisi del pc, inoltre, “mostrò che Game aveva un forte astio per le politiche italiane sia in materia di Esteri che di Interni”.
La Relazione sulla politica dell’informazione per la sicurezza redatta dai servizi di intelligence nel 2009 tracciava il ritratto di una “Nuova generazione di estremisti islamici, non inseriti in alcuna organizzazione strutturata, per lo più non evidenziatisis in precedenza, i quali hanno intrapreso un percorso di avvicinamento al credo jihadista, sino ad abbracciare l’attivismo militante”. In alcuni casi, si legge ancora nel documento, “l’assimilazone all’ideologia radicale è stata favorita dall’incontro con islamisti di un certo spessore nel panorama italiano, durante un periodo di detenzione per reati comuni. Più frequentemente, tuttavia, la formazione dei giovani militanti si giova anche delle nozioni d’indottrinamento e addestramento attinte dalla rete”.