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Usa, è finito il tempo di fare i cowboy

Dietro la brutale decapitazione di James Foley e le nuove minacce cadute su un altro giornalista, Steven Sotloff (rapito anche lui in Siria, ma nel 2013), non c’è solo il pericolo di un’organizzazione terroristica che lo scorso 29 giugno ha proclamato un Califfato, peraltro illegittimo (dal momento che i pareri favorevoli sulla sua istituzione ancora non sono stati pronunciati), ma c’è uno scontro molto più intestino e variabile, che risale agli albori dell’Islam, tra l’universo sunnita e quello sciita. 
In questo quadro oggi l’Iran sta affrontando una sfida senza precedenti, impantanata nella scelta di spendere le proprie risorse economiche e militari per sostenere un governo sciita in Iraq o per continuare a finanziare la lotta di Assad in Siria contro gli insorti e i mercenari wahabiti foraggiati da Riyad e qatarioti.
Un doppio binario che in un certo senso riflette l’interventismo americano in Afghanistan e in Iraq: milioni di dollari spesi, incluso per Teheran l’arruolamento di Hezbollah, nel tentativo di mantenere solido il proprio ruolo nello scacchiere geopolitico mediorientale. Del resto, il pericolo che l’Isis possa sconfinare la Repubblica islamica è alto e la necessità di garantire il dominio sciita del sistema politico iracheno adesso richiede sforzi aggiuntivi.
Soprattutto perché il duopolio, il governo iraniano lo condivide con i sauditi, una monarchia assolutista sunnita posta agli antipodi, che in realtà non si è mai rassegnata a un Iraq governato da Al Maliki, o comunque a un Iraq sciita. Anche Riyad gioca da diverso tempo su due tavoli: in Siria ha finanziato i ribelli antigovernativi, ceduto armamenti alle cellule ultra-radicali e non vi sono dubbi che anche lo Stato islamico di Al Baghdadi abbia ricevuto fondi da simpatizzanti sauditi. Su quest’asse, in cui biologicamente s’inserisce anche la Turchia, non c’è spazio per gli Usa o per i viaggi di John Kerry, come quello compiuto a fine giugno, quando è arrivato a Baghdad per una visita a sorpresa mirata a caldeggiare unità e stabilità in Iraq, impegnandosi a concordare prima una campagna di bombardamenti, poi la scesa in campo dei marines e delle teste di cuoio statunitensi e infine la cacciata di Al Maliki, unica chance per poter interloquire e armare all’occorrenza i curdi (visto il complesso rapporto con le tribù di Al Anbar, le stesse che non molti anni fa combatterono contro Al Qaeda e che oggi però appoggiano l’Is).
La scelta di armare i peshmerga manifesta infatti l’estremo tentativo americano di galleggiare in acque oramai in tempesta. Soprattutto nella regione araba, le lezioni sono state numerose e ripetitive. Basti pensare al sostegno ai Talebani afghani durante l’occupazione sovietica, costato poi, un decennio più tardi, una durissima battaglia (ancora in corso) con Al Qaeda. Più recentemente si può invece risalire allo scenario libico, o alle foto apparse in questi giorni che mostrano il senatore repubblicano, ex candidato alla Casa Bianca, John McCain, in compagnia di rappresentanti di fazioni opposte al regime siriano.
E’ una storia già nota. Il tempo di andare a fare i cowboy per il mondo è finito, e intavolare un dialogo con il Pkk, al momento la principale forza anti-Is sul campo tra l’altro ma inserita – guarda il caso – nella blacklist dei movimenti terroristici di Usa, Ue e proprio Iran, non muterà gli esiti del gioco. Anzi.