Si poteva scegliere una lista, dunque un partito, in pratica un’etichetta; oppure si poteva non votare, scelta in effetti adottata da un sempre crescente numero di persone. Questo sistema ha raccolto quasi unanimi critiche: l’impossibilità per gli elettori di esprimere le loro preferenze era considerata inaccettabile. Tanto più in quanto il premio di maggioranza previsto per la lista che avesse riportato il maggior numero di voti impediva la concreta rappresentanza delle minoranze. In questo momento il problema si pone in maniera pressante: sulla legge elettorale, e connessa riforma del Senato, si stanno contrapponendo le tesi di quelli che vogliono conservare il sistema delle “nomine”, più o meno modificato per rispettare (in realtà far finta di) la sentenza della Corte; e di altri che auspicano un sistema fondato sulle preferenze: che i cittadini siano liberi di scegliere i loro rappresentanti.
Mi sembra che, nel contrasto ideologico e politico, ci si dimentichi della realtà. In un Paese ideale, composto di brave persone, culturalmente, socialmente e politicamente evolute, un sistema proporzionale fondato sulle preferenze è ovviamente il migliore. Risulterebbero eletti candidati affidabili, onesti, coerenti, competenti. Rappresentanza, governabilità, tutela delle minoranze sarebbero garantite. Ma di Paesi ideali ce n’è pochi; e l’Italia non è certo tra questi. Quali sarebbero le conseguenze di questo sistema nel nostro Paese? Non occorre un grande sforzo di immaginazione: le abbiamo conosciute negli anni passati e le conosciamo quasi ogni giorno. Clientelismo, corruzione, dissipazione delle risorse pubbliche e complicità con associazioni criminali in cambio di voti. Sono le preferenze che hanno condotto alla creazione dei feudi politici, dei ras locali, dei sindaci mafiosi, della compravendita dei voti. E comunque le preferenze non fanno venir meno il prepotere dei partiti cui vengono offerti pacchetti di voti in cambio di future cariche di rilievo politico.
Sotto questo profilo i due sistemi, preferenze e “nomine”, si sovrappongono: il partito “nomina” chi gli garantisce voti; e chi è “proprietario” di molte preferenze si compra la “nomina”. La degenerazione della politica italiana, il suo asservimento agli interessi personali, rendono dunque il sistema delle preferenze inidoneo a una gestione del Paese che persegua interessi collettivi, bilanciamento delle diverse esigenze proprie di differenti classi sociali ed economiche. Meglio le “nomine” allora. Sembrerebbe di sì. Scegliere tra persone di ineccepibile moralità, con professionalità e competenze adeguate, “nominarle” amministratori e garanti del nostro Paese, chi potrebbe non essere d’accordo? Niente più capipopolo, mafiosi e amici dei mafiosi, imprenditori che strumentalizzano il loro potere per interessi personali. Niente più incompetenti, politici di mestiere, gente preoccupata solo delle future elezioni, di conservare poteri, privilegi e – diciamola tutta – mezzi di sussistenza: se buttati fuori dal circo dovrebbero lavorare. Perfetto: Padri della Patria a tempo pieno, preoccupati solo del bene comune. Sì, ma, chi li “nominerebbe”?
Partiti che praticano la spartizione di ogni carica, per modesta che sia? Partiti che da mesi sono incapaci di nominare due giudici costituzionali, preoccupati non di garantire professionalità di alto livello alla Corte ma di disporre di prestigiosi sottomessi a questa o quella fazione? Partiti che non riescono a nominare i componenti laici del Csm per la stessa ragione? Un presidente della Repubblica, allora? Quale? Quello che ha imposto il veto alla “nomina” a ministro della Giustizia di un magistrato di grande esperienza e professionalità e di indubitabile onestà, accettando come valida alternativa un diplomato all’Istituto Nautico? No, le “nomine” non sono meglio delle “elezioni”. La stessa miseria, gli stessi interessi, lo stesso protervo potere. Mi rendo conto del vuoto che lasciano queste riflessioni, del disvalore profondo del nichilismo, di questo atteggiamento pessimista e non propositivo. E però ricordate Amleto? “Così la coscienza ci rende tutti codardi, e così il colore naturale della risolutezza è reso malsano dalla pallida cera del pensiero, e imprese di grande altezza e momento per questa ragione deviano dal loro corso e perdono il nome di azione”.
Il Fatto Quotidiano, 27 agosto 2014