Con la sua voce calda, le parole si saldano agli accordi portandoci alla deriva in un mare calmo e in balìa delle note. Dan Michaelson, il “barile di whisky invecchiato 38 anni, baritono e leader dalle gambe corte” come ama definirsi, accompagnato da una chitarra acustica, da un piano e occasionalmente da un violoncello, racconta storie di vita vissuta con annesse le sue difficoltà e le ipocrisie di contorno. Il nuovo disco inciso con i fedeli Coastguards, intitolato Distance è contraddistinto da atmosfere rarefatte e da immagini mescolate e sovrapposte in versi. Otto canzoni d’amore e un’ispirazione che Dan Michaelson trae anche dai tanti cambiamenti avvenuti intorno a sé. Per questo ci sono tanti riferimenti alle stagioni, agli elementi: il modo in cui un fiume scorre più veloce dopo la pioggia, il vento che non riuscirà mai a smuovere una roccia, tante piccole cose immutabili. Immagini confluite nel quarto album in studio del songwriter londinese, che ritorna in scena a due anni di distanza da Sudden Friction, e che abbiamo intervistato per saperne di più su questo nuovo lavoro.
Ritengo che Distance sia davvero un bell’album, calmo ma deciso. Mi chiedo se è cambiato qualcosa nel tuo metodo di lavoro per questo nuovo album.
Per questo album volevo ottenere una maggiore immediatezza. Per scrivere le canzoni c’è voluto molto tempo, ma una volta scritte, volevo che la registrazione cogliesse la reazione immediata della band. Volevo una risposta di pancia piuttosto che un’elaborazione eccessiva. Volevo che si sentisse davvero cosa succedeva tra le sette persone presenti in studio.
Perché hai deciso di intitolarlo Distance?
Un tema dell’album è quello della prospettiva: tirarsi indietro e guardare le cose con chiarezza. Ma c’è anche il tema di cosa ti porti dietro quando te ne vai da un luogo, o da una persona, o da una situazione. Di come ci si allontani da un luogo per avvicinarsi sempre di più a un altro. Distance rende bene l’idea.
Puoi parlarmi di questo nuovo album?
L’album è stato scritto a Montauk, New York, e le registrazioni si sono svolte a Hackney, Londra… due posti molto diversi. Ash Workman ha registrato e co-prodotto con me. Aveva appena finito di lavorare al nuovo album dei Metronimy, e sia io che lui abbiamo pensato che lavorare insieme fosse un’idea strana e interessante al tempo stesso. La formazione dei Coastguards è questa: Henry Spenner alla batteria, Laurie Earle al piano e alla chitarra, Horse alla chitarra e alla pedal steel, Gabriel Stebbing al violoncello, Romeo Stodart al basso, Johnny Flynn al violino… una formazione piuttosto numerosa per me, ma assolutamente essenziale per questo album. Per me era molto importante potermi allontanare dal sound scarno degli ultimi due album, andare ancora oltre, mettere alla prova me stesso e le mie canzoni.
Come si è svolta la realizzazione dell’album? E ne sei soddisfatto?
Ormai mi sono convinto di non essere mai stato più soddisfatto di così per un mio album. Le cose hanno davvero funzionato. La band aveva ascoltato le canzoni solo una volta prima di iniziare a registrare e, come ho detto, siamo riusciti a catturare il loro impulso immediato, la prima reazione. Poi abbiamo sviluppato quelle prime reazioni, dando loro quella che consideriamo la forma ideale. Scrivendo e riscrivendo si perde molto. L’idea migliore è spesso la prima.
Trai ispirazione da film, letteratura, arte o anche da altra musica quando scrivi e produci un tuo album? E se sì, chi sono i tuoi artisti preferiti, e in che modo le loro opere ti portano a ripensare o modificare il tuo processo creativo?
Sicuramente ci sono scrittori come Dave Eggers e Raymond Carver che mi ispirano a essere più ambizioso, a non impigrirmi con le parole, e a esplorare a fondo ciò di cui esse sono capaci. Graham Greene è un altro autore che mi spinge costantemente a fare sforzi maggiori in tal senso, e a godermi la bellezza della lingua. Anche Richard Long, il land artist, ha esercitato su di me un’influenza importante, ma è impossibile dire esattamente in che modo. È una sorta di visione filosofica? O forse è il coinvolgimento con cui fa ciò che fa? Non ne sono sicuro, ma è una cosa molto umana, sento di comprendere la sua opera in una maniera non cerebrale. In qualche modo, questo ha a che fare con l’album. In qualche modo.
Che genere di artista ritieni di essere? Ti piace etichettarti?
Non sono contrario alle etichette. Credo che siano un modo per aiutare le persone a mettere le cose in ordine e a descrivere i propri gusti. Ma io preferirei che siano gli altri a etichettare me. Le etichette più frequenti che mi si attribuiscono sono ‘Alt Country’, ‘Baritone’, ‘Minimal’. Mi stanno bene, ma credo che probabilmente si potrebbe trovare di meglio.
Cosa ascoltavi nei primi anni della tua vita?
Ascoltavo la collezione di dischi dei miei genitori, una collezione curiosa ed eclettica, con artisti come The Four Tops, Elvis, The Carpenters e Skeeter Davis, fino ai Pet Shop Boys e Barry Manillow. In seguito avrei sviluppato i miei gusti, ascoltando in Lee Hazlewood, Leonard Cohen, Carla Thomas, Etta James, Velvet Underground e centinaia di altri. Ma questi sono stati i primi.
C’è un album che avresti voluto realizzare tu?
Centinaia! Ma se dovessi sceglierne solo uno, direi Melody Nelson di Serge Gainsbourg.
Tour in programma?
Spero che qualcuno mi inviti presto a esibirmi in Italia.