Italo Linfante, 52 anni, ha lasciato la Capitale 24 anni fa e adesso è un medico e ricercatore di successo in Florida. Negli Stati Uniti, spiega, vince il merito. "E qui, se hai una percentuale di mortalità al di sopra di un certo standard determinato, ti mandano a casa. Una cosa che in Italia non esiste"
Quello che ha fatto è un viaggio nel futuro, mentre in Italia immobilismo e baroni rischiavano di farlo rimanere impantanato nel passato. Italo Linfante, 52 anni, oggi a Miami è un medico di successo: direttore del reparto di Neurochirurgia Endovascolare al Miami Cardiac and Vascular Institute and Baptist Neuroscience Institute, professore associato in Neurologia, Neurochirurgia e Radiologia alla Florida International University, ha pubblicato più di cento articoli scientifici ed è autore di libri su ictus e malattie endovascolari. “Mi sono laureato alla Sapienza poi ho fatto la specializzazione in Neurologia a Roma per tre anni. Mi occupavo di flusso e metabolismo cerebrale e, per il tipo di ricerca che facevo, nel 1990 fui scelto per andare negli Stati Uniti con una borsa di studio della durata di un anno al National Institutes of Health (Nih) di Bethesda, uno dei più prestigiosi degli Usa. Sono partito 24 anni fa e non sono mai più tornato”.
O meglio, l’aereo lo ha preso, ma lo aspettava una sorpresa. “Quando sono tornato il mio professore mi ha detto a chiare lettere che non c’era nessun futuro per me perché i posti erano già stati assegnati, invece al Nih mi hanno proposto di rimanere. C’erano altri due progetti di ricerca che avevo ideato, mi hanno dato fondi e uno stipendio e così sono ripartito”. Dopo due anni arriva anche la Green card (visto di residenza permanente, ndr) nella categoria di ‘Oustanding Physician in the National Interest‘ e la sua carriera inizia a decollare: “Ho fatto poi la Residency, ho lavorato alla Washington University, al Baylor College of Medicine (Houston) e a Boston come membro della facoltà di Medicina della Harvard Medical School dove facevo attività clinica, di ricerca e insegnavo.”
Insomma, negli States trova la sua strada: quella della neurochirurgia endovascolare. “A Roma mi sentivo una persona strana: facevo lo specializzando dalle 7 e mezza alle 16, andavo in laboratorio e facevo ricerca fino alle 22 e 30. Poi andavo a fare le guardie di notte in clinica privata. Dovevo mantenermi perché purtroppo ho perso i miei genitori quando ero molto giovane. Dormivo lì, mangiavo lì e poi ricominciavo”. E se in Italia era un’eccezione “qui negli Stati Uniti ho trovato tutta gente così: appassionata, che fa esperimenti la notte”.
Durante i suoi studi fa incontri importanti: “Ho lavorato anche con Louis Sokoloff, che ha inventato il modo per misurare flusso e metabolismo cerebrale ed era in odore di premio Nobel. Io gli presentavo i dati dei miei esperimenti e ne parlavamo. In Italia il direttore della Clinica Neurologica dell’università mi avrà parlato cinque volte in tre anni”. Ed è anche il sistema ad essere diverso: “Se negli Usa non sei un clinico bravo, con una casistica senza complicazioni e non fai ricerca ad alti livelli, non fai carriera. Dipende da te: se hai voglia di lavorare molto, vai avanti. In Italia non sei padrone del tuo destino, ma sei sotto le decisioni di qualche barone locale che decide in base ad altre logiche di interesse”.
Ma non solo. Ad essere diverso, in Italia, è anche il concetto di responsabilità. “Qui il responsabile sono io: se le cose vanno male, il primo che viene licenziato sono io”. Ma allo stesso tempo “decido chi assumere. Non è possibile che in Italia sia l’amministratore nominato politicamente a decidere della gestione del personale di un ospedale. E poi qui se hai una percentuale di mortalità al di sopra di un certo standard determinato, ti mandano a casa. Una cosa che in Italia non esiste. Ed è un problema: se hai un posto da primario o da professore non ti manda via nessuno”. E così facendo si perdono numerose occasioni. “La medicina va avanti alla velocità della luce. Qui facciamo cose che io stesso 15 anni fa pensavo che fossero impossibili. La mortalità per ictus, per esempio, negli ultimi 10 anni è diminuita negli Usa e ci sono dei progressi tangibili, si lavora a progetti che in Italia non sono ancora in atto. Soprattutto, chissà quando e se lo saranno. E in questo campo tecnologia e innovazione non solo migliorano il progresso scientifico, ma sono anche motore per la crescita economica”.
La sua carriera lo porta anche a viaggiare spesso per intervenire a congressi internazionali, durante i quali ha avuto modo di rincontrare parte del suo passato in Italia: “Una volta ho parlato con il professore che mi ha detto che per me non c’era speranza. Mi ha detto ‘mi dispiace, ma forse per te è andata meglio così’”. Aveva ragione: “È difficile lasciare il Paese in cui si è nati e i propri affetti, ma una carriera così in Italia me la sarei sognata. E negli Usa, dove vige un sistema di selezione per merito, ho trovato tanti italiani geniali”.