La signora Hamako Watanabe, 58 anni, si era ammazzata per disperazione: il tribunale riconosce il legame di cause-effetto e obbliga la multinazionale a pagare un risarcimento
Finalmente una buona notizia. Mentre l’emergenza nucleare di Fukushima continua tra il disinteresse assoluto dei media locali (e dunque di quelli internazionali, costretti ad accontentarsi dei periodici “tour” organizzati dalla Tepco) e mentre affiorano sempre più preoccupanti i dati sui primi effetti reali delle radiazioni (come l’aumento dei tumori alla tiroide nei bambini), il tribunale di Fukushima ha emesso una prima, coraggiosa sentenza. Si tratta del caso Watanabe, una vicenda di cui avevamo parlato lo scorso luglio in questa stessa rubrica, in un articolo purtroppo segnato da alcuni errori materiali (dei quali mi scuso sia con i lettori che con la redazione). La signora Hamako Watanabe, 58 anni, costretta ad evacuare dal suo villaggio a seguito dell’incidente nucleare del marzo 2011, era tornata, assieme al marito, per controllare la casa e recuperare alcuni effetti personali. Era tranquilla e serena, riferisce il marito, al punto da convincerlo a restare a dormirci per la notte. La mattina dopo è il marito che la trova, carbonizzata, in giardino.
Si era cosparsa di cherosene, dandosi fuoco. Sono una cinquantina, tra i 1500 verificatisi nella prefettura di Fukushima da marzo 2011, i suicidi sinora “ufficialmente” collegati all’incidente nucleare e al conseguente ordine di evacuazione. Probabilmente sono molti di più, e ai suicidi occorre aggiungere le morti “naturali”, soprattutto di persone anziane, dovute allo stress dell’evacuazione e all’insorgenza di complicazioni, dovute allo stress, su persone già malate. La maggior parte dei casi è stata sinora trattata in modo “riservato”. Il governo ha istituito una commissione che funge prima da filtro, poi da consulente/mediatore tra le famiglie e la Tepco. Mikio Watanabe, il marito della signora Hamako, fin dall’inizio ha però deciso di citare in tribunale la Tepco. Una decisione non facile, nel contesto giapponese (dove “metter piede in tribunale” è considerato comunque disdicevole e fonte di imbarazzo sociale), e che l’ha costretto a tagliare i ponti con amici e parenti. Ma alla fine, ha avuto ragione.
La sentenza, destinata ad avere un enorme impatto data l’importanza che l’ordinamento giuridico giapponese attribuisce alla giurisprudenza (cioè ai “precedenti”) non solo gli riconosce un risarcimento in denaro (non molto, secondo gli standard europei o americani, “appena” 49 milioni di yen, circa 350mila euro), ma stabilisce per la prima volta il famoso “nesso causale” tra la morte della signora Hamako e l’ordine di evacuazione provocato dall’incidente nucleare. “Sono felice per mia moglie, che finalmente avrà pace, per i miei figli ai quali potrò garantire un futuro e per tutti coloro che hanno vissuto e vivono questa tragedia – ha detto Watanabe, dopo aver ascoltato la sentenza in piedi, visibilmente commosso – questa è una vittoria non mia, ma della giustizia”. In effetti è così. A oltre tre anni dall’incidente, la cui gravità come oggi ben sappiamo venne tenuta nascosta per lungo tempo e le cui conseguenze ancora oggi sono tutt’altro che domate, la magistratura giapponese ha dato un segno di coraggio.
La sentenza di Fukushima – che la Tepco non ha ancora fatto sapere se impugnerà o meno – arriva infatti dopo pessimi segnali di collusione, omertà e sudditanza nei confronti di un potere, quello del cosiddetto “villaggio nucleare” che sinora era riuscito ad evitare ogni azione di responsabilità. Due anni fa l’archiviazione dell’inchiesta penale contro alcuni dirigenti della centrale nucleare aveva suscitato stupore ed indignazione. Ma ora le cose potrebbero cambiare. La sentenza di Fukushima, ancorchè di primo grado (ma in Giappone è difficile che una sentenza penale venga appellata e ancor più difficile che venga riformata) sancisce per la prima volta giudizialmente che l’incidente non è stato esclusivamente frutto di un evento naturale ed imprevedibile, ma che vi sia stata anche un responsabilità umana, dovuta ad incuria e a violazione delle norme di sicurezza. Questo potrebbe dare maggior forza al ricorso con il quale un gruppo di cittadini ha chiesto alla Procura Generale di rivedere la decisione di archiviazione, “riaprendo” l’inchiesta e rinviando a giudizio i presunti responsabili. In Giappone l’azione penale è “discrezionale” (al punto da diventare spesso arbitraria) ma l’art. 248 del codice di procedura penale prevede la possibilità per i cittadini di ricorrere contro la decisione della Procura.
“In genere questi ricorsi vengono cestinati direttamente – spiega l’avvocato Yuichi Kaido, legale della prima “class action” nella storia del Giappone – o comunque respinti: ma stavolta potrebbe essere diverso. C’è una forte pressione dell’opinione pubblica e all’interno della magistratura le nuove leve sono meno sensibili alle “direttive” del governo. Sono fiducioso”. Se il ricorso dei cittadini verrà accolto, la questione nucleare, attualmente sparita dalle prime pagine dei giornali nonostante l’emergenza sia tutt’altro che risolta, potrebbe improvvisamente tornare alla ribalta, rendendo sempre più difficile per il governo e per le aziende del settore (che stanno comunque correndo ai ripari, aumentando vistosamente gli investimenti nelle rinnovabili) mantenere la promessa elettorale di “ripartire” con il nucleare. Sta di fatto che a due anni dal cambio di governo, e nonostante i vari nulla osta della nuova Commissione Nazionale per la Sicurezza Nucleare, nessuna centrale ha ancora potuto riaccendere stabilmente i reattori. Il nulla osta finale spetta infatti ai sindaci delle varie località dove operano le centrali, ed essendo quella di sindaco una delle poche cariche senza limiti di mandato, nessuno, ora che l’opinione pubblica è decisamente contraria, ha voglia di perdere la poltrona per inchinarsi – e stavolta senza gli enormi incentivi che un tempo fioccavano – ai voleri di un’industria che secondo molti, almeno per quanto riguarda il Giappone, appartiene oramai al passato.