Perugia, Festival internazionale del giornalismo.
“Ma quindi oggi pomeriggio chi deve proporre il #chitelofafare a Quirico?”. Chiedo agli altri volontari videomaker come me.
Domenico Quirico, giornalista della Stampa, caposervizio agli Esteri, è stato sequestrato in Siria per cinque mesi. Eppure, appena liberato, ha assicurato che avrebbe continuato a viaggiare per raccontare. Parla di cambiamento dello storytelling, lui, fedele a penna e taccuino, che continua a voler vivere la realtà prima di riferirla.
Quando sente che la domanda è un semplice e diretto “chi te lo fa fare?” sorride. La risposta: “Se io non corro il rischio posso fare altri lavori”.
È una risposta che mi è tornata in mente qualche settimana dopo, quando, leggendo una recensione del libro di Patrizia Moretti, mamma di Federico Aldrovandi, “Una sola stella nel firmamento”, ho incontrato questo passo:
Abbiamo scoperto che nelle redazioni dei giornali avevano visto fin da subito le foto di Federico massacrato, ma non le avevano pubblicate. È stato un cronista a raccontarci come sono andate le cose. «Avevamo tutti paura di andare contro la Questura» ci ha detto. E quando ha visto la mia espressione sbalordita ha aggiunto: «Se tagliamo i ponti con loro, possiamo anche chiudere il giornale, perché qui a Ferrara, dopo, cosa pubblichiamo?».
E mi sono ricordata delle frasi di Quirico perché sono convinta che la sua risposta non riguardi soltanto il giornalismo di guerra. Il rischio per il corrispondente agli Esteri è quello di essere sequestrato da estremisti, ma anche (e il caso Alpi-Hrovatin lo ha purtroppo dimostrato) di venire uccisi dai poteri politici ed economici.
Per il giornalista politico i rischi sono minori eppure, di norma, non si osa: non si pone la seconda domanda all’intervistato, non si incalza il politico, non si sottopongono al fact checking in diretta le frasi pronunciate negli studi tv. Come le redazioni dei giornali di Ferrara non volevano inimicarsi la Questura all’indomani dell’assassinio di Federico Aldrovandi, così gran parte dell’informazione italiana teme di risultare sgradita. Con la scusa di voler continuare a fare il proprio lavoro: perché se più nessun politico raccoglie gli inviti dei talk show, i talk show smettono di esistere, perché se si propongono inchieste sul nuovo presidente del Consiglio questo certamente cesserà di presentare le sue riforme sulle colonne del giornale critico. E allora è meglio, molto meglio, mantenere un equilibrio.
Attraverso questo equilibrio, che pone domande senza scomodare troppo l’interlocutore, si perde però l’essenza stessa del giornalismo: un’informazione che non annuncia subito che un diciottenne è stato massacrato di botte non è vera informazione, un giornalismo che si limita a ospitare i politici senza evidenziarne contraddizioni e torti è inutile.
Il giornalismo, per il giornalista in primis, deve avere quel concetto etico in cui credeva Pippo Fava, deve essere la forza essenziale della società, perché con la verità “impedisce molte corruzioni, frena la violenza la criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali. Tiene continuamente allerta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo”.
Non è un lavoro semplice, talvolta è anche rischioso, ma si torna alla risposta di Quirico: ci sono dei rischi, sì, ma la loro assunzione è indispensabile per la professione stessa del giornalista. Altrimenti si sceglie un’altra professione, ugualmente dignitosa, ma che non è quella di fare informazione.
Si potrebbe obiettare che, se una sola testata decidesse di seguire questo metodo, probabilmente davvero smetterebbe di poter produrre contenuti. È una riflessione realistica e da non ignorare.
Come se ne esce, quindi?
In primo luogo senza rinnegare il senso della professione giornalistica. Che, appunto, è quella che, per amore della verità, corre il rischio. È una scelta difficile sia dal punto di vista morale, sia dal punto di vista operativo, perché un’informazione seria non si limita alla stesura di articoli o al montaggio di video, ma comporta un serio lavoro di controllo, di studio, di verifica. È solo tramite questa scelta che si può raggiungere una credibilità.
Credo però sia anche necessario studiare nuovi mezzi di comunicazione, sperimentare nuovi linguaggi, format creativi e diversi, che possano sottrarsi alle logiche televisive per poi, eventualmente e con un po’ di fortuna, scardinarle.
Ripetendosi ogni giorno quel che ha efficacemente sintetizzato Horatio Verbitisky: “Giornalismo è diffondere ciò che qualcuno non vuole si sappia; il resto è propaganda”.