Ad essere sincero devo ammettere che anch’io quando ho visto il titolo del nuovo articolo di Sheila Bair sulla rivista Fortune di settembre (quella con papa Francesco in copertina) sono sobbalzato dalla sedia. Ma come, mi son detto, già le imprese pagano meno tasse sui guadagni che i loro impiegati e proprio lei viene a proporre di eliminare completamente la tassa sui loro spesso già cospicui guadagni? Il titolo recita: “Why getting rid of the corporate income tax make sense” (Perché è buon senso liberarsi della tassa sugli utili delle imprese).
Sheila Bair ha una rubrica fissa su Fortune, e scrive a titolo personale, ma è consigliere di amministrazione di alcune grandi imprese globali che operano con o negli Stati Uniti. Fino ad un paio d’anni fa era presidentessa della F.D.I.C. (Federal Deposit Insurance Corporation), un’agenzia indipendente creata dal governo fin dal 1933 allo scopo di assicurare i depositi bancari (attualmente la somma coperta è fino a 250.000 dollari).
Quindi Sheila è una che ne capisce bene di queste cose e mi ha francamente sorpreso che lei proponga addirittura di abolire la tassa tout court proprio in un periodo di tempo in cui negli Stati Uniti l’indignazione popolare è altissima contro le grandi imprese, che per pagare meno tasse decidono di attuare la “Tax Inversion”.
Va bene che stare nei Cda delle grandi imprese vuol dire fare i loro interessi, ma questa proposta appare oltremodo sfacciata. Da lei (che in precedenza mi era sempre sembrata molto equa nelle sue opinioni) non me lo sarei aspettato. Tuttavia, continuando a leggere, ho presto dovuto ricredermi, la sua proposta è davvero sensata. Vediamo perché.
Lei dice (sostanzialmente): “In un mondo che diventa ogni giorno sempre più globalizzato e digitalizzato, ha ancora senso chiedere alle grandi imprese di pagare una tassa sui guadagni? Prima di tutto perché è come cercare di prendere un’anguilla con le mani nude (dico io) e secondariamente perché delocalizzare le imprese è diventato un fenomeno al quale molte imprese si devono adeguare anche controvoglia, semplicemente perché costrette dalla concorrenza delle altre che lo fanno.
Sono già diverse centinaia di miliardi (due trilioni dice addirittura la Bair) i dollari dovuti per tasse da diverse grandi imprese e parcheggiati all’estero. Non rientrano negli Stati Uniti a causa dell’elevata (o ritenuta tale) tassa sui profitti, che negli Usa è al 35%. Ma anche riducendo la tassa, chi potrebbe garantire che poi anche gli altri Stati che ora hanno migliori condizioni di tassazione non farebbero altrettanto?
Eppure l’abolizione della tassa sulle corporazioni migliorerebbe drammaticamente il margine operativo delle imprese, e a cascata si avrebbero molteplici benefici, come il maggiore spazio per gli incrementi retributivi, la copertura sanitaria, la formazione, la ricerca, ecc.
Va bene, dirà già qualcuno, ma perché dovremmo fare un tale regalo soprattutto ai soci di quelle imprese, che si vedrebbero sicuramente incrementato di molto il loro dividendo?
E come andremmo a coprire quel grosso buco?
Innanzitutto, come spiega molto bene la Bair, tassando le imprese non si tassano i ricchi (come molti pensano) ma si tassa appunto l’impresa, cioè, in una società industrializzata, la più importante entità preposta a creare lavoro. Senza contare che con qualche artificio contabile, del tutto regolare, è abbastanza agevole aumentare certi costi e ridurre il reddito sul quale si dovrebbero pagare le tasse.
Quindi lo Stato penalizza le imprese e il lavoro allo scopo di inseguire, attraverso la tassazione, un incasso sempre più sfuggente.
La Bair, che ha lavorato per il governo, sa bene che però da qualche parte quel denaro bisogna pure trovarlo, e qui arriva il lato migliore della proposta.
Attualmente la tassazione sui capital gains e dividends è molto più bassa di quella (a scaglioni) sulle persone fisiche perché esiste la doppia tassazione. L’azionista dell’impresa infatti riceve dividendi che vengono distribuiti solo dopo che l’impresa ha dedotto la tassa da pagare allo Stato. Quindi quel reddito è già stato tassato sull’impresa e viene poi tassato di nuovo sul reddito personale dell’azionista. Sarebbe perciò più proficuo (ed equo) tassare una sola volta quel reddito sull’azionista, invece che sull’impresa, e tassarlo allo scaglione che compete al suo livello di reddito.
La bair porta altri esempi (più complicati) a dimostrare che la proposta darebbe ottimi frutti sotto molti aspetti e chiama in causa il prof. Martin Feldstein, della univeristà di Harvard, il quale già da tempo propone di far pagare una piccola tassa di soli 3 centesimi su ogni 100 dollari di transazioni finanziarie. In questo modo, e con un volume di operazioni in costante crescita, si otterrebbero annualmente circa 35 miliardi di dollari.
Io non so se basterebbero a coprire l’eventuale minore introito della rinuncia a tassare le corporations, sono però convinto che l’idea di spostare la tassazione dal reddito delle imprese a quello delle transazioni finanziarie sia un’idea geniale. Grazie Sheila.