Appare chiaro che il suo sogno sarebbe poter fare le cose con la velocità con cui le dice. Per ciascun hashtag, una profezia che si autoavvera. E che cos’è l’hashtag? Per lui che è fiorentino come il Perozzi è fantasia, intuizione, decisione e velocità d’esecuzione. Dopo la comunicazione politica trasformata in slogan (ormai consegnata dal ventennio scorso direttamente alla storia), ecco l’ulteriore riduzione in scala. Dai manifesti 6 per 3 al social network che produce, consuma e getta nel cestino milioni di parole all’ora. E così il presidente del Consiglio Matteo Renzi si è portato il #matteorisponde fuori da Twitter e dentro il governo: già eccellente con i giochi di parole, ha preso quel ritmo, quella brevità, quei tormentoni e se li è trascinati nei posti più tradizionali. Interviste sui giornali, interventi nei dibattiti televisivi (da Vespa o dalla Bignardi chi se ne frega), vertici con Hollande, Van Rompuy o Obama, cravatte, protocolli e forze dell’ordine. E perfino nei barbosi riti di partito che gli fanno venire la dermatite. Si presentò alla prima assemblea del Pd dopo il trionfo delle primarie (stravinte al suono martellante di #cambiaverso) e dal palco che una volta era battuto da libecciate di “tanto quanto”, “nella misura in cui”, “qualora” lui gridò a Beppe Grillo in piena polemica sui finanziamenti ai partiti: “Hashtag-Beppe-firma-qua” (o il buffone sei tu, terminava quel discorso).
Gli slogan-hashtag-tormentoni sono nati e morti settimana dopo settimana, ma anche giorno dopo giorno. Palazzo Chigi riunisce le menti migliori per pettinare i comunicati stampa (“Lo rende noto…”), lui parla alla “gente”, con tre parole, o quattro. Il confronto con il vezzo di chiamare i decreti “Salva Italia” o “Cresci Italia” o “qualcosa Italia”, come fece comunque sforzandosi il quasi 70enne Mario Monti, è impietoso: sono passati due anni e sembra l’epoca dei Fenici. Le tre parole di Renzi vanno bene in tutte le occasioni: trasmettere fiducia agli italiani, galvanizzare gli elettori, comunicare il buono e tanto lavoro del governo, lisciare la sinistra del partito, banalizzare gli affondi grillini, accarezzare i compagni di partito presidenti del Consiglio subito prima del loro accompagnamento all’uscita.
“#Enricostaisereno“: la sua avventura da presidente del Consiglio nacque così. Era il 17 gennaio e da lì è stata una cascata di cancelletti. Dieci giorni prima di giurare faceva training autogeno con #proviamoci. Non soddisfatto del risultato si perfezionò 5 giorni dopo: #lavoltabuona. Pronto a trasformarlo con la sola aggiunta di una letterina in #laSvoltabuona, nel giorno del grande debutto delle slide: “Sembra un’offerta commerciale. Andiamo avanti” ironizzava mentre scorrevano le infografiche da discount, spargimenti di Obama, sfumature di corsi intensivi per manager, le riforme “di cui non parliamo oggi”, il carrello, il brusio alla comparsa del pesce rosso e “sono contento che vi piaccia”, i giornalisti chiamati per nome, Claudia, Francesco, “quant’è quella cifra, Graziano?”. Un hashtag in formato conferenza stampa, il modulo dell’hashtag a dare l’impronta a un discorso di insediamento. Nella replica a Montecitorio, nel giorno del primo voto di fiducia, non riuscì a trattenersi: “Sintetizzerò in tre tweet”. Era più forte di lui.
In altri casi è stato quasi naturale: inevitabile, alcune settimane più tardi, che diventasse una parola d’ordine #80euro. Quando ancora non era arrivata la sventagliata di indici economici deprimenti, gli bastava un accordo firmato a Genova con la Shangai Electrics per fargli stampigliare il cinguettio #italiariparte, poi ricomparso in varie versioni in occasione di annunci, piani e provvedimenti, come l’ultimo dei #millegiorni. Mille che una volta furono #centogiorni, un grande classico inventato da Berlusconi e poi riciclato da diversi suoi successori a Palazzo Chigi, Renzi compreso. Prima di #iostocondaniza, il leader del Pd ha eletto i gufi a protagonisti di Twitter, ma in senso negativo oltre che metaforico: ci si batte e si vince contro i #gufi, gli #amicigufi, #allafacciadeigufi. Quando si è trattato del primo test elettorale, ha fatto il maratoneta nelle piazze e il velocista sui social network. Sentiva forse la sfida delle manifestazioni con il Movimento Cinque Stelle e quindi comunicava di essere #inpiazza. Giravano sondaggi sempre più preoccupanti (e quindi sballati con il senno di poi) e trasformava il vecchio “vota e fai votare” con un più moschettieresco #unoxuno.
E ora che il percorso del governo si fa un po’ più in salita – con un autunno tutto da decifrare, possibile rimpasti, l’economia che non riparte e per giunta i patti con Berlusconi – invita alla calma e chiama il sito che dovrebbe rendere una casa di vetro l’azione dell’esecutivo “passodopopasso“, anche se cede a una sua vecchia metafora riciclata: in Europa dovremo essere leader, non più follower. E diventa, racconta lui, l’incubo del suo “fratello maggiore” Delrio con questa fissa di mettere le scadenze su tutto – che poi a volte non tornano nemmeno. E soffre, e maledice il mondo “perché l’espressione accountability non esiste in italiano, è un concetto di responsabilità ampia, è l’idea che ciascuno debba rendere conto di ciò che fa. Mettere una scansione precisa è stato un elemento che ha consentito in questi mesi di superare tante resistenze”. Così mettere una data a tutto, dice, serve a difendersi davanti a chi lo mette sul banco degli imputati del reato di annuncite. Subito dopo ha detto che farà mille asili nido in mille giorni.
di Valentina Avoledo e Diego Pretini