Nella storia della pena di morte in Arabia Saudita, un mese più cruento come quello appena terminato si era visto poche altre volte. Dal 4 agosto sono state decapitate 26 persone, quasi il doppio di quelle messe a morte nei primi sette mesi dell’anno.
Nella maggior parte dei casi, le persone decapitate erano state giudicate colpevoli di reati di droga – anche il mero possesso costituisce un reato punibile con la pena di morte. Come nel caso delle due coppie di fratelli messi a morte il 19 agosto, le cui famiglie erano state “invitate” dalle autorità a smetterla di cercare l’assistenza di Amnesty International se ci tenevano alla salvezza dei loro parenti. Infatti…
Nel regno saudita, la pena di morte è prevista per rapina a mano armata, stupro, reati di droga, adulterio, apostasia e stregoneria. Una delle 26 decapitazioni è avvenuta, per l’appunto, per stregoneria.
Dal 1985 al 2013, in Arabia Saudita sono state eseguite oltre 2000 condanne a morte, la maggior parte delle quali tramite decapitazione in luogo pubblico. In alcuni casi le teste mozzate sono state lasciate esposte per lunghi periodo di tempo, a mo’ di “deterrente”. Circa la metà delle persone messe a morte erano cittadini stranieri, soprattutto migranti asiatici, spesso abbandonati dalle autorità dei paesi di origine e privi di risorse per pagare un buon avvocato o quanto meno un traduttore, dato che i processi si svolgono in arabo.
In violazione delle norme internazionali, l’Arabia Saudita mette a morte anche minorenni al momento del reato: almeno tre nel 2013, almeno uno nel 2014.
I processi si svolgono in segreto e, come detto, in una lingua incomprensibile agli imputati stranieri. L’assistenza legale non è quasi mai prevista e le frequenti denunce sull’uso della tortura per estorcere le dichiarazioni di colpevolezza non trovano ascolto.