Il docente di Economia del lavoro della Bocconi spiega che i "risultati" rivendicati da Matteo Renzi e Maria Elena Boschi non trovano conferma nei dati: da maggio a luglio "la curva degli occupati è praticamente piatta". E "c'è una sostituzione tra contratti a termine e a tempo indeterminato". In più, la liberalizzazione dei contratti a tempo determinato "renderà molto difficile introdurre con successo in Italia quelli a tutele progressive: le aziende non avranno interesse a usarli"
Matteo Renzi e Maria Elena Boschi lunedì l’hanno rivendicato come un grande successo. Oggetto, il decreto Poletti, noto come “prima parte del Jobs Act”. Quello che permette di stipulare contratti a termine di durata triennale senza indicare la causa. Il premier, presentando il programma dei Millegiorni, ha parlato di “un dl che ha portato dei risultati verificabili immediati con un aumento dell’occupazione da febbraio a oggi”, mentre il ministro delle Riforme ha detto che “grazie al decreto negli ultimi due mesi si è visto un aumento del numero degli occupati”. I numeri? A ricordarli è una finestra ad hoc su passodopopasso.italia.it, il sito web che dovrebbe permettere ai cittadini di seguire l’evoluzione dell’attività parlamentare e delle riforme: “Da febbraio a luglio 2014, gli occupati in Italia sono passati da 22.316.331 a 22.360.459, facendo registrare un aumento dello 0,2%”. Vero, spiega Tito Boeri, professore di Economia del lavoro all’università Bocconi e tra i fondatori di lavoce.info. Peccato che il lievissimo incremento non dipenda affatto dal decreto che porta il nome del ministro del Lavoro. E che, soprattutto, quegli occupati in più siano tutti precari, mentre i contratti stabili continuano a calare.
Andiamo per ordine: tra febbraio e luglio come si è mosso il mercato del lavoro? E che parte di merito va al decreto Poletti, entrato in vigore a fine maggio?
Effettivamente tra febbraio e luglio gli occupati sono saliti di 44mila unità. Però occorre distinguere: da febbraio a maggio l’occupazione è aumentata, esclusivamente a causa del miglioramento della produzione industriale nei primi mesi dell’anno. Da maggio a luglio, invece, si nota solo un incremento modesto: la curva è praticamente piatta. Quel che si vede, invece, è un cambiamento nella composizione.
Ovvero?
Aumentano i contratti a tempo determinato e diminuiscono in modo consistente gli indeterminati. C’è una sostituzione, confermata dai dati sulle comunicazioni obbligatorie che le aziende fanno quando convertono un contratto a temine in uno permanente.
Insomma, il lavoro precario ha in parte preso il posto di quello stabile.
Sì, è probabile che i datori di lavoro abbiano esteso la durata dei contratti a tempo già in essere invece che concluderli o decidere di stabilizzarli. La crescita, peraltro, secondo l’Istat riguarda “quasi esclusivamente gli uomini”. Le lavoratrici donne, in valori assoluti, tra febbraio e luglio sono diminuite (da 9.316.000 a 9.303.000, ndr). Questo può dipendere dal fatto che gli uomini tendono ad avere contratti a termine di durata maggiore, che in questa situazione sono stati ulteriormente estesi.
In conclusione, Renzi ha cantato vittoria troppo presto?
E’ sicuramente troppo presto e in ogni caso parliamo di occupazione temporanea, precaria, che abbassa la produttività media e che è destinata a sparire rapidamente, appena i momentanei incrementi di domanda che hanno indotto le aziende a prorogare i contratti verranno meno.
Giovedì riparte in commissione Lavoro al Senato la discussione sul “vero” Jobs Act, il ddl delega sulla riforma complessiva del mercato del lavoro che contiene anche il contratto a tutele crescenti. Che conseguenze avrà il fatto di aver varato prima il decreto Poletti?
E’ stata una forma di schizofrenia che renderà molto difficile introdurre con successo in Italia il contratto a tutele progressive: liberalizzare il contratto a tempo determinato per una durata di 36 mesi fa sì che il datore di lavoro non abbia, al termine di quel periodo, alcun interesse a utilizzare un altro strumento a tutele crescenti. Equivarrebbe ad avere una “fase iniziale” di contratto lunga 6 anni, contro un’anzianità aziendale media di 15.