Ma il punto è anche un altro. Lo slogan scelto per il dibattito del nostro Oscar: “Il più rimane da fare, per questo il futuro è meraviglioso”. E qui Farinetti – come tanti intellettuali di fede renziana – maneggia una merce molto più delicata della carne piemontese, dei vini doc e della pasta di Gragnano: la speranza.
Il sottinteso dell’ideologia dei “nuovi ottimisti” pare chiaro: per farcela basta crederci. I cacadubbi sono nella migliore delle ipotesi dei disfattisti, nella peggiore dei falliti rancorosi. Miopi, pure un po’ minchioni.
Ma è davvero questa la speranza, una semplice – vuota, verrebbe da dire – attitudine dell’animo che prescinde dalla memoria del passato, dalla consapevolezza del presente, da un’idea di futuro? Insomma, un’azione che si compie prima di individuarne il contenuto? Un verbo senza complemento oggetto? “Io vivo, quindi spero”, diceva Leopardi. Ma proprio per questo appare insidioso il neo-ottimismo, perché riduce un bisogno vitale a slogan, a merce. Da piazzare come spot, vedi Berlusconi, o come bistecche. No, la speranza è bene prezioso, va maneggiata con cura.
Eppure non è – esclusivamente – responsabilità dei Berlusconi, dei Renzi, dei Farinetti. È colpa anche nostra che chiediamo per l’ennesima volta solo di credere, di sperare. Delegando agli altri il compito di dirci in che cosa. Anche in niente. E così rischiamo di fare la fine che descriveva Kafka: “Ci sono molte speranze, ma nessuna per noi”.
Il Fatto Quotidiano del Lunedì, 1 settembre 2014