Il Dc9 dell’Itavia incrociò le rotte che avrebbero potuto percorrere gli aerei militari americani “qualora non ‘scorrazzassero’ liberamente”. Il virgolettato è contenuto in un memorandum sulle “questioni informative aperte” con gli Stati Uniti. Memorandum che nel 2000, vent’anni esatti dopo la strage di Ustica (27 giugno 1980, 81 vittime), i consiglieri diplomatici del ministero degli Esteri e i servizi segreti redassero in merito ai rapporti dell’Italia con Paesi esteri. Il documento, riversato dalla Farnesina all’Archivio centrale dello Stato, fa parte di un primo lotto di materiale desecretato dopo il decreto Renzi della primavera scorsa, quello relativo ad “atti su eventi significativi per la storia del Paese”. E da questi primi fogli emerge anche che già il 29 agosto 1980 il Sismi collegava il disastro aereo alla Libia di Muammar Gheddafi.
Concentriamoci però sul memorandum scritto 14 anni fa. Da esso emerge che le rotte sono la Ambra 13, quella per i velivoli diretti a sud o a sud est, oppure la Ambra 14, per gli apparecchi in viaggio verso nord o nord est. “Da tener presente”, puntualizza il documento, “che il Dc9 nell’ultima fase di volo aveva dapprima percorso l’Ambra 14 e poi si era portato, sopra Ponza, sull’Ambra 13”. Ricordando poi che si trattava di evidenze emerse dopo la chiusura del lavoro del giudice istruttore romano Rosario Priore, “non è stato possibile richiedere informazioni agli Usa tramite rogatoria”. Ma di rogatorie in precedenza ce n’erano state parecchie e sfogliando le 33 pagine del documento – anticipato da Repubblica che ha esaminato i primi materiali a cui è stato rimosso il segreto – non si trova risposta alla domanda rimasta irrisolta: dato per appurato che il volo civile partito da Bologna venne abbattuto nel corso di un’azione di guerra, non c’è indicata la nazionalità dell’aereo che sparò il missile con cui fu abbattuto il Dc9.
A questo proposito ha commentato Daria Bonfietti, presidente dell’associazione vittime di Ustica: “Le prime carte confermano i depistaggi, ma non dicono chi ha fatto cosa”. Ha ragione l’ex senatrice della Repubblica. È confermato infatti che gli Stati Uniti mentirono quando dissero che in volo sul Mediterraneo la sera della sciagura non c’erano mezzi militari appartenenti al loro Paese. Ce n’erano eccome. Alcuni erano il Navy 61206, il Juliet Mike 169 “che lascia il territorio nazionale a breve distanza […] dal disastro” e tre apparecchi P-3C da ricognizione marittima decollati da Signonella e che “durante la fase del rientro avevano chiesto assistenza alla navigazione”. A smentire le forze armate a stelle e strisce ci sono le conversazioni telefoniche ed emergono da “un successivo esame delle registrazioni tra siti [italiani] e in particolare da quelle provenienti dall’aeroporto di Napoli Capodichino”.
Dal memorandum si delinea un traffico aereo che inizia nel primo pomeriggio del 27 giugno 1980, a partire dalle 14.30. E ai mezzi già citati si aggiungono aerei Novembre Uniform che possono essere sia “velivoli Grumman di soccorso (Uniform 16) che alcuni tipi di caccia”. E aggiunge il documento italiano: “Il giudice italiano ha rilevato, tuttavia, che è molto probabile – se non certo – che i traffici sopra elencati non coprano tutta l’attività dei velivoli militari statunitensi […]. Inoltre occorre tenere conto che diversi velivoli militari non si qualificarono con immediatezza […], bensì [usarono] nominativi radio che, a una prima analisi, apparivano come traffici civili”. Da qui discende che, se non anche i tempi dei voli non coincidono alla perfezione con quelli del disastro, “l’accertata presenza di questi [aerei] dimostra la continua attività Usa che sarebbe ben strano che si fosse fermata nell’intorno del tempo della caduta del Dc9”.
Altrettanto accertata è la presenza – ancora una volta negata da Washington – di una portarei e poi c’è la storia dei caschi. Il primo era bianco e all’esterno riportava la scritta John Drake. Un tenente colonnello italiano, Guglielmo Lippolis, accertò che un pilota con quel nome decollato da un mezzo navale esisteva davvero. Poi, a causa di incidente verificatosi poco prima del disastro di Ustica, si era lanciato dal mezzo su cui si trovava perdendo il casco. Questo, una volta recuperato, “a seguito del trasferimento dei reperti da Palermo a Napoli, è andato smarrito o con più probabilità è stato fatto sparire”. Intanto, nell’aprile 1993, le autorità americane affermarono di aver effettuato una ricerca che andava dal gennaio 1977 al marzo 1993 sugli incidenti aerei che avevano riguardato loro uomini che di cognome facevano Drake. “Nessuno, però, aveva il nome proprio che iniziasse con la lettera ‘J’ e tutti si verificarono all’interno degli Stati Uniti continentali”. Poi verificarono meglio e un John saltò fuori, ma non aveva avuto nessun l’incidente e semmai qualcosa del genere fosse avvenuto doveva essere precedente al 1977. “In caso contrario si trattava di una semplice congettura”.
Il secondo casco, invece, era verde fu recuperato nell’estate 1980 nelle acque davanti a Capaci. Nonostante fosse stato associato a materiale libico e chieste spiegazioni per rogatoria agli americani, questi risposero che apparteneva a una partita prodotta il 13 dicembre 1977 e acquistata dalla marina militare Usa, dalla guardia costiera a stelle e strisce e da una “non meglio specificata sezione militare spagnola”. E tranchant è il giudizio del memorandum del 2000 su questo pezzo di storia: “Il [loro] rinvenimento […], la sparizione del primo e la collocazione del secondo nel Mig libico, [oltre ai] lacunosi accertamenti condotti dallo [Stato maggiore dell’aeronautica], inducono alla conclusione che quei reperti non ‘dovevano’ essere associati all’incidente Itavia. ‘Dovevano’ invece essere in qualche modo ‘dimenticati’, rendendo pertanto impossibile la spiegazione della reale provenienza”.