Provo a raccontare prima dell’inizio del seminario di Officina dei saperi femministi ad Altradimora che si svolgerà dal 5 al 7 settembre, alcuni dei pensieri che condividerò con chi parteciperà.

Intanto, la novità in questo sesto anno di attività: la presenza degli uomini, sempre accolti, ma quest’anno per la prima volta invitati a fare alcuni degli interventi di facilitazione introduttiva del dibattito. Una scelta che scaturisce dal lavoro di un anno e mezzo di laboratori con Manutenzioni-uomini a nudo, la pièce di teatro sociale per uomini germogliata dal libro Uomini che odiano amano le donne – virilità, sesso, violenza: la parola ai maschi, che mi ha portato a conoscere decine di uomini, quasi tutti al di fuori dei circuiti organizzati dalle reti maschili, che si sono, spesso per la prima volta, messi in gioco attraversando il lavoro di una femminista. Ce ne saranno due provenienti da questi percorsi, accanto ad un compagno di strada del G8 di Genova, con il quale da allora ci sono stati scambi anche anche aspri, ma proficui.

Quando, nel 2003, misi insieme a Maria Di Rienzo il materiale per Donne disarmanti-storie e testimonianze su nonviolenza e femminismo, che fu il primo libro italiano a far emergere, con saggi e biografie, la connessione tra pensiero e pratica femminista e nonviolenta, sapevamo di toccare un punto sensibile e di anticipare un lavoro di ricerca che non ha mai smesso di trovare ostacoli, anche e soprattutto dentro il mondo dei movimenti.

Da una parte il rischio è di cadere nella trappola dell’equivoco e dello stereotipo secondo il quale le donne sarebbero maggiormente inclini per natura ad essere nonviolente, per via della capacità riproduttiva, oppure semplicemente perché, in quanto meno muscolari degli uomini, biologicamente meno aggressive. Sappiamo bene che non è così e che è solo lavorando su di sé individualmente e come genere che si può costruire una nonviolenza attiva che prenda anche spunto, ma non solo, dall’essere incarnate in un corpo femminile.

Dall’altra il peso della retorica rivoluzionaria, che indica quasi sempre nella figura maschile dell’eroe testosteronico, seduttore e virilmente violento il modello ideale del condottiero e che ha storicamente creato consenso ‘erotico’ da parte di molte donne, come bene ha scritto Robin Morgan nel suo Il demone amante – sessualità del terrorismo.

Sta nelle parole di Audre Lorde ‘Non possiamo smantellare la casa del padrone con gli attrezzi del padrone’ l’indicazione di un percorso e di una visione divergente che indica una strada scevra dagli stereotipi tipici del sessismo e dell’enfasi rivoluzionaria. La frase di Lorde, poeta e femminista Usa, riassume il senso della ricerca che molte femministe, (e anche alcuni uomini) provano a tradurre in pratiche politiche: usare la violenza, anche quando si pensa (e di fatto è vero) di stare dalla parte giusta non cambia davvero l’ordine delle cose, né aiuta a costruire orizzonti diversi da quelli nei quali ci si trova, subendo la sopraffazione del dominio.

Ovviamente non è facile: ci vuole grande forza di volontà, collaborazione, studio, consapevolezza, empatia, tempo e pazienza. Certamente un’arma, qualunque essa sia, risolve in fretta un dissidio e offre a chi la usa un potere straordinario, quello di vita o di morte. E’ la dinamica del dominio, anche se la casacca è quella della rivoluzione. Il cambiamento sociale e la democrazia, se costruite con la violenza, partono già con un malanno dentro, che prima o poi tornerà indietro a chiedere il conto. Tra uccidere e morire c’è una terza via: vivere, scriveva Christa Wolf, ed è in questo spazio di fatica, di incertezza, ma anche di grande creatività e possibilità, la vita appunto, che possiamo, donne e uomini insieme, costruire relazioni e pratiche diverse da quelle usate nel dominio.

Pietro Ingrao nel film a lui dedicato dal titolo ‘Non mi avete convinto’ dice che la politica, che tanta parte, quasi il tutto, è stata della sua vita, non ci aiuta a rispondere alla domanda su chi siamo, e non offre risposte su di sé.

Il femminismo l’ha fatto, lo può fare, come politica che non parla solo del collettivo, ma anche del quotidiano individuale, e riposiziona l’individualità nel collettivo (il privato è politico), insieme alla scelta di pratiche nonviolente che dal linguaggio all’immaginario al corpo mettono al centro i bisogni e i desideri prima e oltre le differenze di classe?

Proveremo a ragionarne insieme e su www.radiodelledonne.org metteremo gli interventi di facilitazione.

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