“Appena è uscito lui con sua moglie, lo abbiamo seguito a distanza. Potevo farlo là, per essere più spettacolare, nell’albergo, però queste cose a me mi danno fastidio”. E’ Totò Riina in persona a ricostruire il massacro di via Carini a Palermo, dove il 3 settembre 1982 vennero uccisi a colpi di kalashnikov da un commando di Cosa Nostra il generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo. Il capo dei capi nel carcere milanese di Opera ripercorre le tappe di quella strage. Lo fa insieme al suo compagno di ora d’aria Alberto Lorusso. E le sue parole, captate dalle cimici della Dia il 4 settembre 2013 e depositate al processo sulla trattativa Stato-mafia, risuonano ancora più macabre oggi (3 settembre), giorno del 32esimo anniversario della morte dell’alto ufficiale che fu prefetto a Palermo per appena 100 giorni.

“Certe volte, certe volte rido con la figlia di Canale 5, questa è appassionata con suo padre”, aggiunge sprezzante il padrino corleonese riferendosi a Rita Dalla Chiesa. Poi tornando al delitto: “L’indomani gli ho detto: ‘Pino, Pino (si riferisce a Pino Greco detto scarpuzzedda, uno dei più famigerati killer di Cosa Nostra) vedi di andare a cercare queste cose che … prepariamo armi'”. “A primo colpo, a primo colpo – conclude – ci siamo andati noialtri… eravamo qualche sette, otto di quelli terribili, eravamo terribili. Nel frattempo lui era morto ma pure che era morto gli abbiamo sparato là dove stava, appena è uscito fa … ta … ta .. , ta … ed è morto”.

Ancora oggi su quell’eccidio restano molti i punti oscuri. Come quelli, su cui sta indagano la Procura di Palermo, sui documenti scomparsi dalla cassaforte e dalla valigetta del generale. “Gli hanno portato via tutto”, dice Riina ricordando il forziere svuotato. Parole che, commenta Nando Dalla Chiesa, “confermano i nostri dubbi”.

All’ergastolo per l’assassinio sono stati condannati i killer Raffaele Ganci, Giuseppe Lucchese, Vincenzo Galatolo, Nino Madonia e a 14 anni i collaboratori di giustizia Francesco Paolo Anzelmo e Calogero Ganci. Gli uomini della “Cupola”, Totò Riina, Bernardo Provenzano e Michele Greco, erano già stati condannati al maxiprocesso.

Il 3 settembre ’82, dal giorno del suo insediamento, erano passati poco più di 3 mesi, 100 giorni durante i quali cercò di rispondere allo strapotere delle cosche e di spezzare il legame tra mafia e politica. Il prefetto reclamò continuamente la concessione di poteri di coordinamento che solo dopo la sua morte, però, vennero formalizzati.

E oggi, la figura del generale-prefetto Dalla Chiesa è stata ricordata dal presidente del Senato Piero Grasso, dalla presidente dell’Antimafia Rosy Bindi, da magistrati, dalle forze dell’ordine, e dal viceministro Filippo Bubbico. Tutti a Palermo per commemorare l’alto ufficiale. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in un messaggio dice che “con quel brutale atto criminoso, che resta drammaticamente nel ricordo di tutti, si intendeva colpire il tenace impegno di un intransigente ed esemplare servitore dello Stato che, pur consapevole dell’altissimo rischio personale, si spinse fino all’estremo sacrificio per difendere le istituzioni e i cittadini dalla violenza mafiosa, nemica dei principi sui quali si fonda la civile convivenza”.

“E’ il simbolo della lotta dello Stato a Cosa Nostra. Dobbiamo fare in modo che quello che è successo a lui non succeda più”, ha detto Grasso. Mentre Bindi ha ricordato che la nostra democrazia è forte “anche grazie a uomini come Dalla Chiesa” e poi ha aggiunto: “Il 41 bis è uno strumento irrinunciabile. Occorre capire se dopo anni di sperimentazione ha bisogno di qualche intervento relativo alla sua applicazione perché sia più efficace in alcuni aspetti e tenga conto in maniera più incisiva del rapporto tra la detenzione speciale e i diritti dei detenuti”.

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