Il film in concorso al Lido racconta le ultime quarantotto ore del poeta e intellettuale bolognese ucciso nel 1975. Il regista: "Sono cresciuto guardando le sue opere e non lui guardando i miei. Sono di religione buddista e questa mi insegna a riflettere"
“Non voglio trovare chi l’ha ucciso, ma meditare sul mio maestro”. E’ un riverente Abel Ferrara ad omaggiare Pier Paolo Pasolini nel film omonimo – “Pasolini” – in Concorso alla 71esima Mostra del cinema di Venezia. Quindi per chi pensa di trovarsi di fronte ad un nuovo capitolo giudiziario dell’annoso e violento omicidio (2 novembre 1975) del poeta bolognese rimarrà deluso. Il Pasolini del regista newyorchese, interpretato mimeticamente da William Dafoe, è sì quello delle ultime 48 ore della sua vita; ma l’incedere narrativo, e l’obiettivo di fondo di un film che ha riscosso molto entusiasmo tra il pubblico ma anche parecchie stroncature dalla critica, rimane quello della rappresentazione di un uomo, del suo febbrile e controcorrente universo intellettuale, del suo entourage familiare, con gli affetti più cari e gli amici più intimi che lo accompagnano, senza saperlo, verso gli ultimi istanti prima della morte: “Durante i mesi di preparazione del film”, ricorda Abel Ferrara durante l’incontro veneziano con la stampa, “non ho mai registrato una parola cattiva nei confronti di Pasolini da parte di chi ha lavorato con lui”.
Così immersi in una livida e scura Roma anni settanta, troviamo Pasolini a casa con la madre (Adriana Asti), la cugina Graziella (Giada Colagrande), Nico Naldini e perfino Laura Betti (Maria De Medeiros). La quotidianità casalinga prima di prorompere nelle drammatiche fasi dell’incontro finale con Pino Pelosi e del litorale ostiense (peraltro mai messe in scena al cinema) si mescola ad una ricomposizione onirica del romanzo Petrolio – con tanto di politici, industriali e sabbia del deserto – come, e soprattutto, del girato del film che Pasolini avrebbe voluto fare e non ha mai iniziato, quel “Porno-Teo-Kolossal” con Eduardo De Filippo (nel film interpretato da Ninetto Davoli) e lo stesso Davoli (interpretato da Riccardo Scamarcio) in giro per una Roma alla Sodoma e Gomorra, con i gay che stanno con i gay, le lesbiche con le lesbiche e una volta all’anno si accoppiano per la riproduzione. “Non ho mai detto che sapevo chi l’aveva ucciso”, spiega Ferrara riferendosi ad alcuni articoli di giornali che avevano anticipano un presunto scoop sulla lavorazione di “Pasolini”, “il punto centrale del film è la compassione. Per citare Pier Paolo “La morte di ciascuno riflette la propria vita”. “Dovete capire che io sono cresciuto guardando i suoi film e non lui guardando i miei. Sono di religione buddista e questa mi insegna a meditare sui miei maestri. Quindi non mi sono mai confrontato con lui. Forse dirigendo Ninetto Davoli mi ci sono avvicinato”. “Pier Paolo avrà preso più di 30 denunce ma continuava ad andare avanti come un cavallo coi paraocchi”, ha raccontato Davoli, facendo da autentico mattatore durante la conferenza stampa del film, “Lui diceva la verità e la gente rimaneva sconvolta. Era sconvolto da come fossimo rimasti catturati da un sistema di vita così consumistico e dalla violenza che aveva generato nel mondo”. Quell’indignazione che nell’ultima intervista concessa da Pasolini a Furio Colombo – ritratta con compostezza nel film -, si trasforma quasi in paura: “Crebbe da omosessuale in una società prebellica”, continua Ferrara, “visse l’esperienza del suo film Salò tutti i giorni durante la guerra, ma non si è mai ritirato, non si è mai zittito”.
Difficile smuovere Abel Ferrara, dinoccolato e misterioso allo stesso tempo: dentro a “Pasolini” il film ci sono le risposte per lo spettatore, fuori fin troppe chiacchiere ed interpretazioni, soprattutto su quella maledetta morte: “E’ stato uno script impegnativo perché abbiamo tentato di raccontare un mito della cultura italiana del ‘900 immenso e complesso, senza cadere nell’errore di un film nostalgico”, aggiunge lo sceneggiatore Massimo Braucci, che spesso Ferrara invita a rispondere al posto suo, “il film doveva essere anche per i più giovani che entrano in sala senza sapere già tutto del personaggio raccontato. La documentazione dell’opera pasoliniana è stata minuziosa. Inoltre come documenti giudiziari abbiamo letto tutte le carte possibili, studiando il processo di primo grado del 1976 che rimane l’inchiesta più affidabile sul caso”. Il poeta che rilegge e sfida la storia italiana muore quindi senza nessun complotto politico come causa, ultimo tra gli ultimi, tra la polvere dell’Idroscalo e lo sguardo inebetito dei sottoproletari, in linea con una marcata visione cristologica che il regista newyorchese porta avanti da tempo: “La morte di Pier Paolo mi venne annunciata mentre ero sul set de L’eredità Ferramonti”, conclude commossa la Asti che con Pasolini girò Accattone e fu amica, “pensavo fosse immortale”.