Barbara Monachesi, 41 anni, ha lasciato una carriera da avvocato per unirsi a una ong per le donne di Kathmandu, la città dei paradossi. Dai bambini di strada ai frigoriferi usati come cassettiere "perché non c'è elettricità per 12 ore al giorno". Ma prima o poi, dice, "tornerò in Italia per partecipare al cambiamento del mio paese"
Quando ha incontrato il bambino che sarebbe diventato suo figlio, Barbara Monachesi, 41 anni, non sapeva ancora che si sarebbe trasferita in Nepal. Allora, aveva poco più di vent’anni. “Dopo l’esame di stato da avvocato, volevo fare un’esperienza di volontariato all’estero. Per caso sono finita in Nepal“. Ma tra le tortuose strade di Kathmandu, l’incontro con uno dei tanti bambini di strada nepalesi. “Aveva 10 anni, lo vedevo tutti i giorni. Sniffava colla insieme ad un gruppetto di bimbi sporchissimi per le vie di Thamel“, un quartiere turistico della capitale. Un giorno il ragazzino segue Barbara fin sotto casa. Lei lo fa entrare e da quel giorno c’è l’accordo. Che è duplice: tra il bambino di strada e la sua nuova mamma, e tra Barbara e il Nepal. “Da allora, non ho più lasciato questo paese paradossale”.
Ma non è stato solo l’incontro con i bambini di strada a fare abbandonare a Barbara una carriera da avvocato già avviata, nonché la sua Romagna. Sono stati gli occhi delle donne nepalesi, i veli colorati che coprono i loro sguardi, le tante spose bambine e mogli violate che camminano con gli occhi bassi tra le strade del tetto del mondo. “Le ho viste, non potevo non aiutarle. Nel 2007 mi sono unita ad Apeiron, una onlus che si occupa proprio di aiutare le donne e le bambine in Nepal. E ora sono referente nel paese”.
Nella sede dell’associazione, su un pannello, sono appese le foto di ragazze italiane e nepalesi. “Claudia, italiana di 35 anni, è vedova; Radhika, nepalese di 30, diventa strega, dopo aver perso il marito. Floriana a 16 anni è figlia, Shanti a 16 anni è in vendita. Giulia a 8 anni è a scuola, Prakha a 8 è a lavoro tra le strade di Kathmandu. Elena a 12 è figlia mentre Pabitri a 12 anni è sposa“. Quando ha iniziato, per Barbara è stata una missione. Anno dopo anno, è diventato il suo percorso di vita, dopo aver sposato un ragazzo nepalese e aver avuto due figlie che vivono con loro a Kathmandu. “Ho trovato la mia strada – continua Barbara pensando alla sua associazione -. Oggi ho un’altra luce negli occhi, me lo dicono tutti”.
I paradossi: il Nepal ne è pieno. “È il paese più ricco di acqua al mondo dopo il Brasile, eppure non c’è l’elettricità“. Kathmandu, la capitale, è al buio per dodici ore al giorno, tanto che il frigorifero non serve a nulla e “posso usarlo come cassettiera”. L’acqua proveniente dal pozzo, invece, è così rossa di ferro che non può essere usata neppure per pulire i panni bianchi, “a meno che tu non preferisca vederli diventare gialli al primo lavaggio”. Ma il paradosso più difficile da affrontare è quello dei rapporti sociali: “Io sono fuori casta, e secondo me i nepalesi mi considerano anche un po’ pazza per aver abbandonato l’occidente e aver scelto di vivere in uno dei paesi più poveri al mondo”. Non è facile essere considerata alla stregua di un intoccabile in un paese in cui l’appellativo che si rivolgono i nepalesi tra loro è “fratello” e “sorella”. Appellativo con cui la fuori-casta-Barbara non sarà mai chiamata. “I nepalesi sono conosciuti come il popolo del sorriso, e infatti sono molto gentili. Ma di amici, proprio perché fuori casta, non ne ho molti. Ed è questa la cosa di cui ho più nostalgia”.
Lavoro, passione, figli e marito nepalesi. “Una scelta che rifarei ogni giorno della mia vita”. Eppure Barbara a volte pensa di tornare in Italia. “Quando il Nepal diventerà troppo faticoso”, oppure la condizione delle donne migliorerà tanto che Apeiron non avrà più ragion d’esistere. “Mi preoccupa pensare che sempre più persone vogliano andare via dall’Italia – conclude Barbara -. Per questo un giorno tornerò nel mio paese: non perché penso di poter fare la differenza, ma per prendere parte al cambiamento“.