L’incredibile rimonta degli indipendentisti scozzesi spaventa sempre di più. Così, con l’ultimo sondaggio che ha dato il fronte del “sì” al 47% contro il 53% di chi vuole un Regno Unito ancora unito, la finanza della City e la politica di Westminster cominciano a lanciare gridi d’allarme e a paventare una crisi economica dietro l’angolo, nel caso di una separazione della Scozia dal regno di sua maestà.
Nella mattina di giovedì (4 settembre), parlando a margine del vertice della Nato a Newport, nel Galles, il premier conservatore David Cameron ha detto chiaramente che, con una eventuale Scozia indipendente, non si dimetterà. “Sarà un problema per Edimburgo, non per il nostro governo”, ha fatto sapere il primo ministro britannico, riferendosi alla secessione e quasi a voler fugare ogni dubbio sulla tenuta dei Tory dopo il referendum del 18 settembre. Poco importa – come dicono gli analisti politici – che proprio la “minaccia” di un nuovo governo conservatore (che probabilmente uscirà dalle urne delle elezioni politiche di maggio 2015) sia una potenziale molla che potrebbe spingere gli scozzesi, tendenzialmente progressisti e “di sinistra”, a votare per l’indipendenza.
Poi c’è l’economia. Mercoledì 3 settembre, la banca d’affari Goldman Sachs ha diffuso uno studio, effettuato dal capo della ricerca economica, nel quale si parla di “conseguenze disastrose” per l’economia scozzese nel caso di indipendenza. Sempre nello stesso giorno, Lloyds, colosso bancario nazionalizzato al 25%, annunciava di avere l’intenzione di spostare la propria sede legale, nel caso di vittoria dei “sì”, da Edimburgo a Londra.
La Scozia, ormai è quasi certo, non potrà tenere la sterlina, la moneta forte che in questi anni ha contribuito al successo della City di Londra. Inoltre, un welfare troppo forte per le casse dell’eventuale nuovo stato avrebbe un effetto deleterio sui conti di chi vive a nord del Vallo di Adriano, conti non compensati dagli introiti del petrolio del Mare del Nord. Giacimenti che, comunque, dovrebbero essere remunerativi per altri tre o quattro decenni – questi gli ultimi studi – ma gli scozzesi indipendenti non potranno contare solo sull’oro nero. Insomma, un modello norvegese, dicono gli economisti, sarebbe non replicabile a Edimburgo, per diversi fattori e anche per un’economia troppo abituata a dipendere dalle stanze del potere londinesi.
Il sondaggio di pochi giorni fa, intanto, è stato a dir poco sorprendente. Il distacco fra il fronte del “no” e quello del “sì” è ora di soli sei punti percentuali, era di 17 punti ad agosto e di 14 punti a giugno, sempre a favore per gli “unionisti”. Un sondaggio effettuato da YouGov, affidabile società di ricerca, e che ha fatto sicuramente sorridere Alex Salmond, premier scozzese (comunque Edimburgo già ora ha un suo sottogoverno) e leader dello Scottish National Party. Un partito tendenzialmente progressista, dai forti valori sociali e attento al welfare e ai diritti dei lavoratori. Una formazione quindi in grado di rubare voti ai laburisti e, infatti, l’ultimo sondaggio di YouGov lo ha dimostrato: gli elettori del Labour favorevoli all’indipendenza sono passati dal 18 al 30% nel giro di pochissime settimane. Anche grazie alle sfide televisive fra gli uomini del governo Cameron e Alex Salmond, con l’ultimo match davanti alle telecamere che ha mostrato tutta la forza della posizione scozzese.
Eppure, c’è un altro fronte, quello delle ripercussioni del voto a livello nazionale. Sempre secondo gli analisti, l’indipendenza della Scozia potrebbe portare a lunghi anni di futuri governi conservatori, proprio perché il Labour, ultimamente, ha resistito proprio grazie ai voti degli elettori scozzesi, che con la secessione verrebbero automaticamente esclusi, con l’istituzione di una nuova frontiera, di nuove leggi e persino – questa una delle ipotesi in ballo – di una repubblica a tutti gli effetti, senza forse nemmeno l’ala “protettrice” della casa reale, come invece è il caso di tanti altri paesi del Commonwealth dove Elisabetta II rimane comunque capo dello stato. Ed ecco, così, per tenersi stretti gli elettori laburisti scozzesi, arrivare l’appello del leader del partito di opposizione, Ed Miliband. Il quale ha bocciato le proposte di Salmond, definendole “pericolose” per la tenuta del welfare, promettendo allo stesso tempo, nel caso di un governo laburista dopo le politiche di maggio, un aumento della paga minima di stato, un taglio delle tasse alle aziende, un rafforzamento del regime dei “benefit” (assegni di disoccupazione, di integrazione al reddito e di sostegno alle famiglie) e un clima da Bengodi sociale che, in verità, da tempo non si respira più al di qua della Manica.