La contea di Qiemo, Xinjiang, estremo occidente cinese, lancia un progetto pilota per favorire i matrimoni misti. La notizia, che sembrerebbe di cronaca spicciola, ha in realtà portata nazionale e forse globale. Lo Xinjiang è infatti la regione dove negli ultimi mesi si sono verificate violenze tra la minoranza turcofona e musulmana degli uiguri – lì ancora maggioranza – e le forze di sicurezza di Pechino. Alla radice, la non integrazione tra gli originari abitanti del bacino del Tarim e gli immigrati han, l’etnia maggioritaria in Cina, sempre più numerosi anche nell’area che si affaccia sull’Asia Centrale. Lo Xinjiang diventerà, nelle intenzioni della leadership cinese, il moderno polo economico e commerciale su cui convergerà una rinnovata Via della Seta. All’antico percorso carovaniero si va sostituendo oggi una rete di trasporti, gasdotti e oleodotti. Si tratta di collegare sempre più strettamente la Cina all’Europa – partner commerciale – e ai preziosi giacimenti di materie prime dell’Asia Centrale. Ma c’è un problema. A partire almeno dalla rivolta di Urumqi del 2009 (200 morti e 1.700 feriti), la regione ha vissuto continue violenze. Se nel 2013 ci sono stati oltre cento morti, quest’anno il fenomeno si è acuito con diversi attacchi terroristici di cui Pechino accusa il Movimento islamico del Turkestan Occidentale (Etim), organizzazione di cui si sa poco e che per le autorità cinesi sarebbe affiliata ad al Qaeda.
Le associazioni uigure all’estero puntano invece il dito contro le politiche repressive del governo cinese. Sta di fatto che, come in Ucraina o in Medio Oriente, una zona politicamente ed economicamente strategica è al centro di un conflitto. Qui a bassa intensità, ma sufficientemente violento da provocare diverse emicranie a Pechino. Oltre alla crescente repressione, il governo cinese ricorre da anni alla tattica di favorire l’emigrazione han nell’area – i cinesi dell’etnia maggioritaria rappresentavano solo il 7% nel 1949 e sono il 40% oggi – investe in sviluppo e infrastrutture e promuove il turismo, sulla base del principio per cui il benessere diffuso eliminerà quasi automaticamente le tensioni sociali.
Ora, almeno a titolo sperimentale, si ricorre anche alla politica matrimoniale. Così, a Qiemo (o Qargan), eventuali coppie interetniche che abbiano registrato il proprio matrimonio dopo il 21 agosto possono chiedere una sovvenzione annua di 10mila yuan (oltre 1.200 euro). Non è male, dato che il reddito medio annuo di quell’area rurale è di 7.400 yuan. Secondo dati del 2000, solo l’1,05% dei matrimoni uiguri avveniva con membri di un altro gruppo, il rapporto più basso tra tutte le 56 etnie della Cina. L’esperimento di Qiemo punta quindi a superare questa tradizionale opposizione e anche a incentivare eventuali famiglie miste a restare in Xinjiang. Ma gli uiguri non si mischiano agli han soprattutto per timore di perdere la propria identità etnica e religiosa, meno globalizzata e accattivante di quella della secolarizzata, consumista, grande Cina. Il figlio di una coppia mista sarà difficilmente musulmano osservante. Quanto alla lingua, parlare cinese significa business e promozione sociale all’interno Paese e l’uiguro rischia così di ridursi a semplice dialetto. È troppo presto per trarre un primo bilancio dall’esperimento di Qiemo ma diversi esperti, ripresi anche dai media cinesi, appaiono piuttosto scettici. Il problema Xinjiang non si risolve con un matrimonio.
Gabriele Battaglia