Va detto che la stragrande maggioranza delle imprese italiane paga per il diritto annuale cifre assai modeste, parametrate al volume d’affari. Cosicché per le Pmi, che costituiscono il 99% del tessuto economico-produttivo italiano, l’esborso si colloca in una forbice tra 200 e 500 euro all’anno.
Di questo stiamo parlando. Di 40 kg di pane!
E chi sostiene l’idea che col taglio operato il governo ha lasciato nelle tasche delle aziende una cifra enorme non ha evidentemente ben chiara quale sia l’effettiva entità della tassa. Ma dimostra in particolare di non sapere una cosa importante: le Camere di commercio, come si ricava dai relativi bilanci elaborati dall’Istat, negli ultimi due anni hanno messo a disposizione del mondo delle piccole e medie imprese più di 1 miliardo di euro.
Ciò si è tradotto in interventi di sostegno alle aziende più piccole e dunque più vulnerabili e indifese per accedere al credito, abbattere i tassi di interesse bancari, incentivare a fare impresa, mettere in sicurezza i propri negozi, continuare a pagare le tasse nonostante la crisi. Molto delle azioni messe in campo dalle camere di commercio si sono poi risolte nello stanziamento di fondi per soccorrere settori in crisi, aumentare gli investimenti su comparti innovativi e valorizzare le eccellenze manifatturiere e agroalimentari dei nostri territori.
Ecco perché sparare alzo zero sulle Camere di commercio significa dare una mazzata al mondo delle pmi e dunque all’ossatura della nostra economia.
Delle due l’una, quindi: o c’è stata malafede da parte di chi ha voluto ed appoggiato la riduzione del diritto annuale, oppure si è colpevolmente ignorato il quadro di quello che effettivamente sono e fanno le camere di commercio. Ciò, al di là delle leggende metropolitane di cui il “popolo” si nutre e che troppo spesso, come in questo caso, trovano sponde politiche ai massimi livelli istituzionali. Come la favoletta popolare secondo cui le camere di commercio foraggerebbero, attraverso lauti gettoni di presenza, i relativi organismi direttivi. Anche in questo caso i numeri posso aiutarci a smentire le fuorvianti voci di popolo, di cui i renziani di lotta e di governo sono molto probabilmente rimasti vittima. Perché gli appannaggi degli organi istituzionali delle camere di commercio in tutta Italia ammontano a circa 21 milioni di euro. Che suddivisi per i 105 enti presenti sulla Penisola, significano poco più di 200mila euro all’anno.
Ma la mossa del governo sulle camere di commercio – che da tempo sono tutt’altro che un covo di trombati dalla politica, come sono state “simpaticamente” definite da Renzi – prescinde in realtà dalla necessità di sgravare le imprese di una tassa, per nulla odiosa. O di dare uno schiaffo al sistema di rappresentanza, rottamando gruppi dirigenti cooptati attraverso discutibili sistemi elettivi da associazioni di categoria autoreferenziali.
L’obiettivo del taglio sul diritto annuale, che dal prossimo anno priverà di 600 milioni di euro il sistema degli enti camerali, emerge con chiarezza guardando i bilanci delle 105 Camere di commercio. Che possono contare su un patrimonio di ben 3,2 miliardi. Fatto di partecipazioni finanziarie, ma soprattutto di immobili, che nella stragrande maggioranza dei casi sono in uno stato manutentivo molto buono. E che quindi – questo è il calcolo di cui si vocifera – con la sicura messa sul lastrico di molte camere di commercio, entrerebbero nella piena disponibilità del Tesoro. Divenendo così un tesoretto non indifferente da valorizzare sul mercato o da cedere a qualche grosso investitore immobiliare nelle grazie della Cassa Depositi.
In tutto ciò a perdere peraltro non saranno solo le pmi, ma anche gli enti locali. Per i quali, in una situazione di stretta strutturale sulla finanza pubblica che perdura da anni, le camere di commercio erano divenute strumento indispensabile con cui mettere in campo sui relativi territori politiche economiche attive. Senza di esse e privati come siamo di una visione di politica economica e soprattutto di risorse nazionali, il rischio vero è di mettere in discussione parte del tessuto produttivo italiano. E in definitiva un modello di sviluppo imperniato su capitalismo diffuso, piccole economie locali e micro specializzazioni, che ha peraltro retto l’impatto devastante della crisi.
@albcrepaldi