Nel mondo i grandi investitori privati possiedono oggi 35,6 milioni di ettari di terra. Due volte la superficie coltivabile della Germania.
Che cosa accadrebbe se tutti la usassero per coltivarci prodotti alimentari? Le tecnologie moderne potrebbero sfamare tra 300 e 550 milioni di persone in tutto il mondo, ma senza l’intervento degli stranieri, sarebbero 190 milioni.
L’investimento nell’acquisto di terra può avere risvolti etici? Sembrerebbe di sì a giudicare dalla stima elaborata da Paolo D’Orrico e Maria Cristina Rulli. Uno professore del dipartimento di Scienze ambientali dell’università della Virginia, l’altra professoressa del Politecnico di Milano, sono autori della ricerca “Lo stanziamento di cibo attraverso le acquisizioni di terra su larga scala”. “Quello che noi auspichiamo è che i risultati scientifici che abbiamo prodotto possano essere utilizzati per attuare strategie vantaggiose per investitori e popolazione. Queste devono tener conto delle effettive condizioni degli autoctoni, delle conseguenze di una eventuale trasformazione delle terre in un bene da vendere sul mercato e delle loro potenzialità nel caso di investimenti stranieri”, spiega Rulli a ilfattoquotidiano.it.
“Sulla fame non si specula”, recita una campagna lanciata nel 2013 da un gruppo di ong, fondazioni e realtà del terzo settore (tra cui Acli e Banca Etica): ciò che crea conflitto tra investimento straniero e fame è la destinazione d’uso della terra. Se l’investimento portasse più produttività e lasciasse i prodotti ad uso interno, stando ai calcoli dei ricercatori si potrebbe registrare un aumento fino al 308% per la produzione di riso, fino al 280% per il mais, fino al 148% per lo zucchero di canna e fino al 130% per l’olio di palma.
Ancora Rulli: “Dal punto di vista prettamente scientifico, il fenomeno delle acquisizioni su larga scala è influenzato dalle politiche ambientali di Europa e Stati Uniti“. E il dibattito è ancora in corso su come evitare che queste politiche impattino sui sistemi sociali, specialmente nei Paesi più poveri. Secondo la studiosa Expo potrebbe essere una grande opportunità per mettere sul tavolo questo paradosso: chi ha i mezzi per risolvere il problema alimentare compra la terra per produrre energia, invece che cibo