“Non c’è nessuna voglia di tendere trappole o di ordire complotti, abbiamo sempre detto che non è nostra intenzione trattare Renzi così come è stato trattato Pier Luigi Bersani. Allo stesso tempo è chiaro che serve un partito in cui si possa discutere”. Discutere, discutere e ancora discutere. Al tempo dei primi segnali di crisi del renzismo il verbo della campagna d’autunno della minoranza Pd si chiama “discutere”. Un verbo che da quando il fiorentino siede a Palazzo Chigi è stato tenuto nei cassetti perché le decisioni sono sempre state prese dall’alto, in camera caritatis, con il cosiddetto “giglio magico” (Luca Lotti, Francesco Bonifazi, Maria Elena Boschi). Ma adesso che il governo del “rottamatore” Matteo Renzi guarda con una certa preoccupazione all’autunno caldo che sta per arrivare – con una legge di stabilità da varare e una serie di nodi da sciogliere, come quello sul blocco degli stipendi degli statali – la sinistra del Pd, quella uscita sconfitta dal congresso del 2013, prova a ricompattarsi. E nelle segrete stanze del Palazzo, tra un’uscita di Bersani e una di D’Alema, studia una strategia d’autunno che scalderà i prossimi mesi in Parlamento.
Lontano, lontanissimo, il giorno in cui l’attuale premier (18 marzo 2014), presentando il libro di Massimo D’Alema al Tempio di Adriano a Roma, lanciava l’ex leader della sinistra come commissario Ue: “Dobbiamo mandare in Europa le persone più forti che abbiamo e mi riferisco ai livelli istituzionali. Il compito del governo è di scegliere per i livelli di guida delle istituzioni europee le persone che siano in grado di dare il migliore contributo in questo senso”. O ancora: lontano, lontanissimo, quando dalle colonne di Repubblica l’ex viceministro Stefano Fassina ammetteva che “Matteo ha capito più e meglio di noi la fine di una stagione, intuendo che stava avvenendo un passaggio d’epoca. È un grande merito: glielo riconosco”. E pensare che il “Fassina pensiero” risale soltanto al 29 maggio scorso. Ovvero all’indomani della sfavillante vittoria alle europee, quando il premier trascinò i democratici sopra il 40%.
Ecco, oggi la sinistra Pd – dopo mesi trascorsi a subire la comunicazione e l’annuncite del premier-segretario – rompe gli schemi e riparte dall’attivismo di Massimo D’Alema e Pier Luigi Bersani. Cui si affianca, però, una vera e propria piattaforma programmatica di sei punti, di fatto alternativa alla proposta dell’esecutivo di Matteo Renzi.
Limata a tavolino in queste ore, la proposta della sinistra Pd (area riformista) verte in prima istanza su un piano che il parlamentare Alfredo D’Attore definisce di “antiausterity”. La prima arma, infatti, sarà un emendamento al pacchetto riforme per cancellare dalla Costituzione (articolo 81) l’obbligo del pareggio di bilancio introdotto con il fiscal compact. E non importa che ai tempi del governo Monti (quando quel provvedimento fu approvato) il primo firmatario di quella legge fosse proprio l’ex segretario Pd, Pier Luigi Bersani. Perché, sottolinea D’Attore con ilfattoquotidiano.it, “lo diciamo chiaramente, abbiamo commesso un errore. È una linea che non ha prodotto risultati economici, il debito è persino cresciuto. In questo senso proponiamo la modifica dell’articolo, in questo senso stiamo promuovendo un referendum anti-austerity, in questo senso in Europa non si può avere un atteggiamento che alla fine risulta perdente rispetto alla Merkel”.
E il piano consiglia anche, attraverso una mozione già presentata alla Camera dei deputati, di “utilizzare le risorse delle privatizzazioni di aziende pubbliche per finanziare iniziative di sviluppo industriale delle società interessate o per finanziare un piano straordinario di investimenti produttivi per la riqualificazione delle periferie urbane, la messa in sicurezza delle scuole e dei territori a maggior rischio idrogeologico”. Una ricetta quella “riformista” che al terzo punto, stando alla versione del parlamentare democratico, dovrà prevedere “l’esclusione degli investimenti dal calcolo del deficit”. Mentre al quarto una strategia molto più incisiva sull’evasione fiscale: “Anziché tagliare del 3% le spese dei ministeri (così come ha proposto Renzi in un’intervista al Sole 24 Ore, ndr) – rilancia D’Attorre – si punti ad una lotta più incisiva sull’evasione fiscale, anche per evitare che a pagare siano i soliti noti: pensionati, dipendenti pubblici”.
Ma alle ricette economiche non si potrà non affiancare una forte presa di posizione sul ruolo del partito e sulla gestione della segreteria. Una segreteria che non è stata più convocata dal giorno in cui Renzi ha varcato l’ingresso di Palazzo Chigi. Infatti, prosegue D’Attorre, “il primo punto da capire è se la segreteria debba avere un ruolo politico o essere un appendice di Palazzo Chigi. Ancor prima della gestione unitaria dobbiamo capire se la segreteria gestisce qualcosa”. Infine, al sesto e ultimo punto, la richiesta della minoranza sarebbe quella di apportare una modifica sostanziale alla legge elettorale, l’Italicum, introducendo le preferenze in modo tale da restituire ai cittadini il diritto scelta ai cittadini. Modifica che il senatore Miguel Gotor, storico e consigliere politico di Bersani, motiva con questo ragionamento a ilfattoquotidiano.it: “Non può funzionare una democrazia in cui hai una Camera di secondo grado, il nuovo Senato, e un’altra Camera di nominati. Questa non è una battaglia contro Renzi, magari è una battaglia contro Verdini e Berlusconi che hanno posto il veto sulle preferenze. Per quale ragione il Pd, quanto più appare forte sul piano dei risultati – vedi il risultato delle europee – quanto più appare meno autonomo e più condizionato da Verdini e Berlusconi?”.
Un programma ambizioso che i “sinistri” del Pd contano di presentare alla festa di fine estate di “area riformista”, che si terrà dal 26 al 28 settembre nella Capitale, a Rione Testaccio. E che potrebbe valicare i confini classici degli ex Ds: ovvero area riformista e i cuperliani. Conquistando anche l’area cattolica-popolare di Rosi Bindi e Beppe Fioroni, pronti con il fucile in mano a sparare un colpo al primo errore commesso dal premier-segretario. Ieri Rosi ha iniziato a scaldare i motori: “Penso che le ministre di questo governo siano state scelte non solo perché brave ma anche perché giovani e belle”. Ecco perché, insiste una voce che corre fra i pochi parlamentari presenti alla ripresa dei lavori, “il tasso di casino aumenta al punto che qualcuno arriva a pensare al dopo Renzi. Addirittura i dalemiani si starebbero preparando a un governo a guida Mario Draghi“.