L’episcopato venezuelano, prevedibilmente, non l’ha presa affatto bene. Ed ancor peggio il presidente della Rebública Bolivariana de Venezuela, Nicolás Maduro, ha preso il fatto che la locale gerarchia cattolica (o la ‘Santa Inquisizione’, come non ha esitato a definirla) non l’abbia, per l’appunto, presa per nulla bene. Causa della diatriba: una preghiera. O, più specificamente, la recentissima versione ‘chavista’, di quella che per la tradizione cristiana è, notoriamente, la preghiera delle preghiere. Vale a dire: il ‘Padre Nostro’, orazione che, secondo il Nuovo testamento (Matteo 6,9-15), fu lo stesso Gesù (“…Signore, insegnaci a pregare…”) a recitare per primo in presenza dei suoi seguaci.
Questa è, in estrema sintesi, la storia. Giorni fa, nel corso d’una grande assemblea dedicata alla formazione ideologica dei quadri del Psuv (il partito-Stato del Venezuela chavista) una militante di nome Maria Estela Uribe ha presentato, tra applausi, slogan e lacrime d’emozione (vedi il video), quella che ha definito ‘la preghiera del delegato’. E che in effetti altro non era che il succitato “Padre Nostro”, corretto da una serie di varianti, la più sostanziale delle quali era quella che rimpiazzava la parola ‘padre’, con Chávez, supremo ed eterno leader della rivoluzione bolivariana. Eccone, per gli amanti del genere religioso-grottesco, il testo integrale: “Chávez nostro che sei nei cieli, nel mare, nella terra e dentro di noi, delegati e delegate, sia santificato il tuo nome, venga a noi il tuo insegnamento, per portarlo ai popoli di qua e di là (qua in Venezuela e là nel resto del pianeta n.d.r.), dacci oggi la tua luce perché ci guidi ogni giorno, non lasciarci cadere nella tentazione del capitalismo, ma liberaci dal male, dall’oligarchia e dal contrabbando, perché nostra è la patria, la pace e la vita. Nei secoli dei secoli. Viva Chávez!”.
Trasmessa in diretta e più volte enfaticamente riproposta dalla televisione di Stato, quest’alquanto grossolana scimmiottatura della liturgia cristiana (scimmiottatura che, peraltro, è una costante della ritualità chavista) ha provocato l’ovvia reazione dell’arcivescovo di Caracas, Jorge Urosa. Il quale, non poco contrariato da quella che ha legittimamente considerato una sorta di burla blasfema, ha fatto con molta decisione presente a tutti i cattolici venezuelani come quanti dovessero seriamente recitare quella preghiera – che, ha sottolineato, ‘attribuisce ad un essere umano virtù proprie di Dio’ – cadrebbe inesorabilmente nel ‘peccato di idolatria’. Parole, queste, che a loro volta hanno, con altrettanta puntualità, provocato l’alquanto adirata risposta dell’‘idólatra en jefe’. Ovvvero: di Nicolás Maduro, attuale presidente della República Bolivariana, legittimo ‘erede, figlio ed apostolo’ del “Chávez nostro che sta nei cieli”.
Assai forti – e, come con certa frequenza gli capita, anche involontariamente comiche – le argomentazioni con le quali, ovviamente in diretta televisiva, Maduro ha, da un lato, rivendicato i contenuti dell’orazione e, dall’altro, replicato (vedi il video) ai “signori dell’Inquisizione” che pretendono censurare ed umiliare la ‘creatività poetica’ di un’umile rappresentante del popolo, colpevole solo di cantare il suo amore per l’eterno comandante. ‘Basta – ha gridato Maduro, colmo d’un furente sdegno, dopo aver di nuovo declamato la contestatissima ‘preghiera’ – basta con questa persecuzione contro Chávez…Chiediamo rispetto…’.
Qualcuno potrà obiettare, con ben più d’una buona ragione, come sia cosa ridicola – di fatto una vera e propria sfida al decoro intellettuale ed al buon gusto – parlare di ‘persecuzione contro Chávez’ in un contesto nel quale il ‘culto a Chávez’ è ormai diventato una religione di Stato. Ed altri potrebbero – con altrettante buone ragioni, sottolineare quanto strampalato (insultante, per molti versi) sia stato, in questo medesimo contesto, il richiamo di Maduro ad un altro ‘padre nostro’. Quello di Pablo Neruda. Più esattamente: quello del ‘Canto a Bolívar’ il cui primo verso – ‘Padre nuestro que estás en la tierra’ – molto laicamente contrappone, e non equipara, il Libertador al Dio dei cristiani. Ma uno sguardo, foss’anche il più rapido, ai desolati panorami del Venezuela d’oggi, spinge, in realtà, a molto più indulgenti considerazioni.
Il paese, infatti, sta semplicemente andando a pezzi. Il bolívar – la moneta nazionale che, a suo tempo, lo stesso Chávez volle chiamare ‘forte’ – è non solo debolissimo, ma (quel che è peggio) incredibilmente sopravvalutato ed esposto ad un sistema di controllo dei cambi assolutamente demenziale. L’inflazione è alle stelle. Nei negozi manca il 40 per cento della mercanzia e – in un quadro politico-sociale sempre più autoritario e militarizzato – l’ipotesi d’un razionamento ‘alla cubana’ appare di giorno in giorno meno fantasiosa. L’associazione dei medici venezuelani ha appena chiesto al governo di dichiarare lo stato d’emergenza a causa della cronica carestia di medicinali che ha ridotto alla paralisi l’intero sistema sanitario. E la cosa davvero straordinaria (un record assoluto) è che a queste profondità il regime è arrivato, non (come più volte in passato) in una fase di magra petrolifera, ma nel corso del più prolungato ed arrembante dei ‘boom’ petrolifero della storia.
Quello che rimane oggi del ‘socialismo del XXI secolo’ annunciato dal comandante eterno non è, in effetti, che questo: un monumento alla inettitudine, allo spreco, alla corruzione ed alla fanfaronaggine, dalle cui rovine non emerge che la ‘burla blasfema’ d’una nuova religione. O meglio: quel che, nella sua essenza, il chavismo è sempre stato: puro culto della personalità, ammantato d’una improvvisata ideologia. Maduro e ‘l’ umile’ Maria Maria Estela hanno – a conti fatti e loro malgrado – ragione da vendere: sotto questi chiari di luna, al Venezuela non resta che la preghiera. La preghiera ad un dio che non esiste…