Quello di cui avremmo bisogno è una nuova Italia da bere. Sembra questa l’ambizione nascosta dietro i numerosi inviti a sostenere i consumi. L’espressione risale a un famoso slogan degli anni 80 che ha rappresentato il volto del craxismo ma anche l’emblema (illlusorio) di un Paese che si risollevava economicamente. Lo spot era quello dell’amaro Ramazzotti, ambientato, con sottofondo musicale dei Weather Report, in una Milano “che vive e lavora”, che “non è mai finita”, una Milano “da vivere, una Milano da sognare, una Milano da godere. Questa Milano da bere”. 

Nonostante incubasse i peggiori anni della nostra vita, quel periodo si faceva forza di numeri consistenti. Il Pil italiano, tra il 1983 e il 1988, cresceva del 3% l’anno con un picco del 4,1 nel 1988. L’inflazione, allo stesso tempo, scendeva inesorabilmente: aveva toccato il picco del 21% nel 1980 ma nel 1984 era già stata dimezzata al 10 (segno che il governo Craxi e l’abbattimento della scala mobile non saranno stati così determinanti) per poi scendere ancora all’8, al 6 e al 4,7% nel 1988, fino al 2% del 1990. Numeri che sostanziano la frase di Bettino Craxi per descrivere l’economia italiana: “La nave va”. Nel governo di Renzi coloro che sognano di tornare a quel periodo non mancano. I paralleli tra Matteo e Bettino sono stati già fatti. Anche l’ex sindaco si prodiga in messaggi sul “coraggio” per contrastare il peggior nemico degli italiani: “la paura”. Gli manca solo di proporre un battagliero “consumare o morire” per mettersi sulla scia dei grandi condottieri. 

Quando Milano godeva
Al posto della minacciosa inflazione, però, il nemico numero uno oggi è la più insidiosa e sconosciuta deflazione. Far “ripartire” i consumi, riaccendere i motori di un’economia stagnante è la nuova missione planetaria. Gli 80 euro di Matteo Renzi ne rappresentano la vestale. Incaricati di risvegliare la fiammella della spesa  per dare ossigeno a una domanda tramortita dall’austerità, finora però non si sono dimostrati all’altezza del compito trascinandosi dietro anche gli indici di fiducia nel governo. 

La deflazione significa, semplicemente, il contrario dell’inflazione, cioè il calo dei prezzi. Dipende dal calo della domanda di beni e servizi. Il suo verificarsi provoca la riduzione dell’attività produttiva perché le imprese riducono le proprie spese in attesa di una ripresa dei prezzi o comunque vendono a prezzi più bassi. Questo si riflette negativamente sui loro ricavi e li induce a ridurre i costi, a cominciare dal costo del lavoro. L’occupazione così si riduce con evidenti ricadute negative sulla domanda e il circolo vizioso è bell’e compiuto.

Tutto l’inverso di quello che, keynesianamente parlando, è il circolo virtuoso: l’aumento della spesa e degli investimenti pubblici produce un maggiore reddito il quale, a sua volta, spinge la domanda e i consumi, favorisce nuova produzione e porta a nuove assunzioni, quindi a nuovo reddito e così via.

I dati degli ultimi cinque anni affossano questa prospettiva. Il Pil è stato fortemente negativo nel 2009 (-5,4%) e, di fatto, non si è più ripreso: il dato migliore è stato il +1,7% del 2010 per poi segnare quasi sempre indici negativi fino alle fosche previsioni per il 2014 che non smentiranno questa situazione. Al contempo, l’inflazione, ha ballato attorno a cifre molto basse precipitando all’1,2% nel 2013 e viene stimata allo 0,6% nel 2014. 

Eravamo abituati a preoccuparci dell’inflazione e invece, ora, dobbiamo temere il suo contrario. Un effetto spiazzante che, infatti, disorienta le persone comuni. Da qui, gli inviti a consumare, a spendere, a trovare misure che facilitino la domanda. La scuola keynesiana batte, come al solito, sull’aumento della spesa dello Stato tramite un allentamento dei vincoli di bilancio europei o, addirittura, immaginando sforamenti del deficit. Ipotesi che, recentemente, è stata abbracciata anche da solidi esponenti liberisti come il bocconiano Francesco Giavazzi. Basta “far bere il cavallo”, insomma, e l’economia ripartirà. La scuola liberista, o monetarista, propende invece per la riduzione, drastica, delle tasse, in modo da liberare risorse che facciano ripartire l’economia. Renzi, che un pensiero economico tutto suo non ce l’ha, si barcamena fra le due correnti: riduce l’Irap e mette un po’ di euro in busta paga.

L’austerità come alternativa
Eppure, fino a qualche tempo fa i consumi erano “il male”, facevano più tendenza parole come “sobrietà” o “decrescita”: un po’ propagandistica la prima, teoria più sociale che economica, la seconda. Le bacchettate sul consumismo hanno, ad esempio, caratterizzato l’era di papa Wojtyla contraddistinta da “tre sfide”: la pace, la lotta al comunismo e la lotta al consumismo. La frase sintetica di questa missione è quella che invita a “non passare dalla schiavitù del comunismo a quella del consumismo”, avvertendo dai rischi di degenerazioni dei valori morali. Wojtyla ha attraversato l’età “reaganiana” degli anni 80 e poi il mito dell’Occidente ricco e luccicante che si è diffuso come una brezza leggera nei paesi dell’ex blocco sovietico dopo l’89.

Il messaggio del Vaticano ha fatto breccia in una certa sinistra rimasta ancora legata al mito berlingueriano della “austerità” o in un certo pensiero laico e liberale che stimava le idee di Ugo La Malfa. Se quest’ultimo, però, era animato soprattutto dalla lotta all’inflazione che flagellava l’Italia degli anni 70 Enrico Berlinguer aveva trovato in quella parola d’ordine un’attuazione degli “ideali di fondo” del movimento operaio. Il leader comunista definiva l’austerità come “il mezzo per contrastare alle radici un sistema i cui caratteri distintivi sono lo spreco e lo sperpero”. Al contrario, l’austerità significava “rigore, efficienza, serietà, e giustizia”. Un valore morale, dunque, ma anche “occasione per un rigoroso risanamento dello Stato”. Il segretario del Pci era alle prese con la seconda grande crisi del secolo, quella petrolifera, che diede vita, tra il 10 dicembre 1973 e il 2 giugno 1974, a uno stato particolare per l’economia e la società italiana: lo stato di austerità. La domenica, le auto non potevano circolare per risparmiare energia, cinema e teatri chiudevano alle 23, le trasmissioni Rai entro le 22,45.

Delle tante anomalie del Belpaese quella è forse la più surreale e, per chi allora era bambino, suggestiva. Berlinguer stava anche cercando una ragione politica che giustificasse la strategia di governo e quella ipotesi gli permise di mettersi in connessione con i settori della borghesia più avvertita. Il messaggio, per la levatura morale dell’uomo politico e per la rilevanza del partito comunista italiano, si colorò però di significati più ampi. Aveva, infatti, le doti di una visione sistemica e, almeno in parte, rimandava a quella di Pier Paolo Pasolini, l’intellettuale più risoluto nella battaglia anti-consumistica: “C’è un’ideologia reale e incosciente che unifica tutti: è l’ideologia del consumo”. Per Pasolini “l’impero del consumismo” era il “peggiore dei mali”, più della povertà o dello “sfruttamento”. 

La domenica andavamo a piedi
Questo mix di posizioni politiche, morali, economiche dipendeva da più fattori. Se per Pasolini prevaleva la visione di una società in disfacimento sotto i colpi del “progresso”, per il Pci si poneva semplicemente il problema di fare i conti con la crisi. Una crisi verticale, profonda, immediatamente paragonata a quella, abissale, del ‘29 e che veniva dopo un lungo “miracolo economico” contrassegnato dal “boom italiano” degli anni 50 e 60. Periodo virtuoso in cui, non a caso, la dea del consumo conquistò anche i più distanti. Il supporto viene, come con la radio agli inizi del Novecento, dallo sviluppo della televisione e della propaganda di massa. La pubblicità diventa una nuova conoscenza degli italiani che possono scoprire sul piccolo schermo, tramite la rèclame televisiva, prodotti di altri tempi come il dentifricio Mira, la pasta Ghigi, i cuscini Sogno o la cera Emulsio. È l’epoca di Carosello e la pubblicità diventa parte integrante della vita quotidiana con protagonisti come Calimero, Jo Condor (recentemente citato da Enrico Letta), Caballero e Carmencita.

Il consumismo è alimentato dalla pubblicità e il nesso è nitidamente spiegato in una delle serie tv di maggior successo degli ultimi anni, Mad Men, ambientata, non a caso, negli Usa degli anni 60. Donald Draper è il direttore creativo della Sterling-Cooper, una delle agenzie pubblicitarie più importanti del paese e il racconto della sua vita, intrisa di whisky e fumo, si snoda lungo il binomio pubblicità-consumi di massa e il periodo d’oro dell’economia internazionale. Il circolo virtuoso keynesiano si dispiega, per l’ultima volta, nella sua massima potenza.

Poi, c’è un declino lento, a volte impercettibile, ma chiaro nei numeri. I tassi di crescita dell’economia italiana si collocano tra il 5 e il 6% negli anni 60, scendono al 3-4% nei Settanta, poi al 2% negli anni 90 fino a toccare lo zero attuale. La curva discendente vale anche per il resto dell’occidente. 

A dare il colpo di grazia al mito del consumismo, però, è una cittadina olandese fino ad allora sconosciuta nel mondo: Maastricht. Con l’avvento dell’Unione europea e poi dell’euro, l’economia europea è stretta in un cappio da cui non sembra poter uscire. I famigerati parametri, necessari a unificare le economie europee, a ridurre la spesa e i debiti pubblici, un po’ alla volta producono una gelata di portata storica. La crisi del 2008 non fa altro che esaltare una stagnazione già intervenuta, visibile nella disoccupazione di massa e in tassi di crescita poco superiori allo zero. Gli zelanti burocrati di Bruxelles, in realtà, riescono là dove non erano riusciti uomini come Berlinguer o Wojtyla. La domanda arretra nel corso degli anni 90 e poi nei Duemila. L’unico picco in Italia sarà raggiunto nel 2000 con un più 3% che appare un’isola nel deserto.

Nel fumo di Mad Men
Il cavallo ha smesso ancora di bere, per citare ancora gli economisti. Ecco, dunque, nascere gli 80 euro. L’invito è di nuovo quello di correre al supermercato, presso i concessionari di auto, ovunque sia possibile far risorgere il sorriso a una produzione affranta. Non è detto, però, che possa bastare. Se il giudizio sulla manovra di Renzi è ancora prematuro, è anche vero che uno stimolo fiscale da 10 miliardi di euro in un’economia come quella italiana assomiglia a una timida carezza. Servirebbe qualcosa di più. E servirebbe fare tesoro di quanto è avvenuto storicamente. L’invito a consumare sembra aver funzionato nei primi anni del Novecento, quando il capitalismo aveva bisogno di un mercato di massa. Ma nel 1929 è arrivata la Depressione, risolta solo con una guerra mondiale. È poi stato il volano, nel Dopoguerra, per dare fiato a quelli che l’economia definisce “i trenta gloriosi”, gli anni che vanno dal 1945 alla crisi petrolifera del ‘73. Anche in questo caso è giunta una nuova Grande crisi.

Di anni gloriosi non sentiremo più parlare ma, grazie anche a espedienti finanziari (bolle borsistiche, sviluppo del debito) si è avuta la crescita virtuale degli anni 80 e 90. Poi, nel 2007-2008 una gelata dirompente. Sobrietà e consumismo hanno rappresentato risposte contingenti che non hanno mai risolto squilibri di fondo. Servirebbe, allora, un ripensamento delle priorità, una strategia di fondo, una revisione delle dottrine economiche. Meno propaganda e più serietà. Servirebbe un pensiero. Un lusso che l’Italia della crisi sembra non potersi permettere.

 

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