Infranta la promessa che avrebbe visto Hong Kong votare per la prima volta liberamente nel 2017. Domenica il Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo ha escluso che i candidati possano essere nominati liberamente. A questi ultimi, infatti, sarà richiesto di “amare la patria (leggi la Repubblica popolare)” e la promessa di “proteggere la stabilità”. Significa che non potrà candidarsi nessuno che sia inviso a Pechino. Una direttiva che dovrà essere ratificata da almeno il 50 per cento del parlamento di Hong Kong e che quindi rischia di fatto di bloccare il parlamento dell’ex colonia britannica.

Era il settembre del 1982 quando Deng Xiaoping, l’architetto della Nuova Cina, incontrò la Thatcher a Pechino per discutere sul destino di Hong Kong. All’epoca il premier britannico sembrava irremovibile. Se Pechino avesse continuato a insistere per riprendersi la sovranità sull’ex colonia britannica sarebbe stato uno scandalo: “Chi ha soldi e capacità lascerà immediatamente il territorio. Di conseguenza il collasso economico sarà irreversibile”.

Il primo ministro britannico insisteva sul fatto che la Gran Bretagna avrebbe dovuto gestire l’ex colonia anche dopo che la licenza sui Nuovi Territori fosse scaduta nel 1997. Ma in questo caso fu Deng a vincere il braccio di ferro. La sovranità su Hong Kong non era un fatto che poteva essere discusso e la Repubblica popolare si sarebbe ripresa i territori di Hong Kong non appena la licenza fosse scaduta. Alla fine Londra abbandonò il progetto di mantenere la sovranità dopo il 1997 e le due parti firmarono nel 1984 la Dichiarazione congiunta sino-britannica. Qui si concordò l'”alto grado di autonomia come regione amministrativa speciale, in tutti i settori ad eccezione della difesa e della politica estera”.

La Dichiarazione stabilì inoltre che la zona avrebbe mantenuto il suo sistema economico capitalista e garantito diritti e libertà ai suoi cittadini per cinquant’anni. Cioè fino al 2047. Tali garanzie vennero sancite dalla costituzione, la Legge Fondamentale di Hong Kong (formulata sulla base del Common Law britannico). Tuttavia, si specificò, quest’ultima sarebbe stata soggetta all’interpretazione del Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo. In seguito il governo cinese aveva promesso che il prossimo leader di Hong Kong – che paradossalmente si chiama Amministratore delegato e attualmente è nominato da un comitato di 1.200 individui espressione dei gruppi economici e di potere della città – sarebbe stato scelto attraverso il suffragio universale. Questo sarebbe dovuto avvenire per la prima volta nella prossima tornata elettorale del 2017. Ma poi è arrivata la retromarcia di alcuni giorni fa.

Il punto è che Hong Kong si è sempre vantata di essere una metropoli atipica, più globale che cinese o asiatica, multiculturale, attenta alle libertà e ai diritti dei suoi cittadini e, soprattutto, fedele al principio per cui la legge deve essere autonoma rispetto alla politica. La Repubblica popolare invece, forte dell’ascesa avvenuta negli ultimi trent’anni, è sempre più convinta che la democrazia potrebbe minare la stabilità del paese e che il modello politico del Partito unico è il solo che può continuare a garantirgli quella crescita economica che l’ha portata a poter sfidare a viso aperto l’egemonia economica statunitense.

Il Quotidiano del popolo, voce ufficiale del Partito, parla di agitatori stranieri che “cercano di trasformare Hong Kong nella testa di ponte per infiltrarsi nella Repubblica popolare e sovvertirla. Cosa che – aggiunge – non può essere assolutamente permessa”. Pechino è ferma e decisa, ma i movimenti pro democrazia di Hong Kong hanno annunciato “una nuova era di resistenza e disobbedienza civile”. Bisognerà vedere quanti cittadini saranno disposti a sfidare apertamente la Repubblica popolare. Nel dubbio una divisione dell’Esercito di liberazione è entrata in città per controllare la zona degli edifici governativi.

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