Ieri sera mi è capitato di leggere su La Repubblica il punto di vista di Roberto Saviano sull’omicidio di Davide Bifolco, il ragazzo di 17 anni ucciso con un colpo d’arma da fuoco sparato da un carabiniere. Visto il titolo dell’articolo – “La Ferguson di casa nostra” – mi aspettavo una “semplice”, anche se scritta in modo impeccabile, presa di posizione sulla questione, l’ennesima – e comprensibile – denuncia di quanto sia assurdo morire a 17 anni in quel modo, nel 2014 ed in uno Stato democratico.
Invece lo scrittore, dopo aver espresso sconcerto e dolore, è andato oltre e finalmente ho potuto leggere un’analisi critica e profonda, che si prefiggeva un compito un po’ più arduo del semplice racconto del fatto in sè, un compito che ben pochi giornalisti ed intellettuali, al giorno d’oggi, hanno il coraggio (o le capacità?) di assumersi. Una frase su tutte, a mio parere, riassume l’articolo di Saviano: “(…) è importante ricostruire le dinamiche e accertare le colpe. Ma concentrare tutte le discussioni, le dichiarazioni e le energie solo su questo, non è altro che lo strenuo tentativo di chiudere gli occhi di fronte a una realtà che fa paura e che non si vuole vedere.” Oppure, mi permetto di aggiungere, una realtà che fa comodo che venga esposta in modo così superficiale.
Eventi tragici come questo o come la morte di Stefano Cucchi o la mattanza avvenuta durante il G8 di Genova nella scuola Diaz e nel carcere di Bolzaneto, ma anche come le decine di poliziotti feriti da molotov e spranghe di ferro nelle manifestazioni infiltrate dai cosiddetti “black block” o a seguito di scontri a fuoco con mafiosi e delinquenti di ogni genere, dovrebbero servire da campanello d’allarme prima e da stimolo poi per chi ha il potere di porre rimedio alle falle di un sistema che permette ad episodi del genere di verificarsi. L’unico compito, quindi, di chi ha questo potere dovrebbe essere quello di analizzare la situazione a fondo, comprendere le cause che l’hanno generata e infine trovare un modo per evitare che si la storia si ripeta.
Invece assistiamo ogni singola volta al ripetersi dello stesso identico film: i giornali escono il giorno successivo con articoli praticamente identici tra loro, nei quali, accanto al racconto dettagliato dell’evento, viene descritto nei minimi dettagli il dolore privato di chi ha subito quella terribile tragedia, facendo a gara per scovare il particolare più impressionante e scabroso della vicenda, la foto più cruenta e scioccante, la testimonianza che farà più scalpore; mentre i politici si affannano ad esternare la loro opinione nel modo più roboante possibile, prendendo una o l’altra parte, pronti ad addossare colpe e ad esprimersi in frasi banali e, a volte, addirittura ipocrite. Il silenzio degli intellettuali è assordante.
Il risultato di questa incredibile superficialità è stato, è tuttora e continuerà ad essere, da una parte la mancata risoluzione del problema e, dall’altra, l’acuirsi della rabbia, dell’egoismo, della sfiducia, del senso di impunità, della cultura della giustizia-fai-da-te e della diffidenza verso chi non rientra nel proprio piccolo mondo conosciuto.
Ad ogni ragazzo ammazzato o malmenato crescerà la rabbia dei cittadini verso le forze dell’ordine e ad ogni poliziotto o carabiniere ferito o ucciso (sì, perché due settimane fa è stato ucciso un carabiniere e nel gennaio scorso fu ferito gravemente un poliziotto ad un posto di blocco) crescerà quella degli agenti verso i cittadini e di entrambi verso lo Stato.
E quando, alle vittime di questi crimini, lo Stato non sarà in grado di dare giustizia, in entrambe le fazioni crescerà il senso di impotenza, il desiderio di vendetta, lo spirito di branco ma, soprattutto, diminuirà sempre più la lucidità e la capacità di analisi critica necessarie per compiere sempre e in ogni caso la scelta giusta e per non dimenticarsi mai che, prima di essere manifestanti o poliziotti, siamo tutti cittadini e, ancor prima, esseri umani.