E' la strada scelta da Aarhus, seconda città della Danimarca, per contrastare il fenomeno degli estremisti che ogni anno partono dal paese scandinavo alla volta del Medio Oriente. Il programma offre ai combattenti che tornano cure mediche, recupero psicologico, la ricerca di un'occupazione e il proseguimento degli studi. "Ciò che facciamo è garantire loro accoglienza nel momento in cui tornano a casa", spiegano gli autori del programma. Lo scopo: reinserirli in società
Un programma di riabilitazione rivolto ai jihadisti partiti per la Siria: nessuna incriminazione, cure ospedaliere, reinserimento in società e un posto di lavoro. E’ la strada scelta da Aarhus, seconda città della Danimarca, per contrastare il fenomeno degli estremisti che ogni anno partono dal paese scandinavo alla volta del Medio Oriente. Il programma, frutto di una collaborazione tra i servizi sociali e la polizia cittadina, offre ai combattenti che decidono di fare ritorno in patria cure mediche per le ferite riportate durante i bombardamenti e gli scontri a fuoco, nonché un programma per facilitare il loro recupero psicologico, la ricerca di un lavoro o il proseguimento degli studi. Le autorità cittadine, inoltre, garantiscono un supporto alle famiglie dei danesi che si trovano in Siria: i familiari sono agevolati nel mantenere i contatti via Skype con gli espatriati e i rapporti con le autorità governative, diplomatiche e le agenzie di intelligence per tenere sempre aperti i canali necessari a riportare i jihadisti in patria.
Un approccio radicalmente diverso da quello scelto dalla maggioranza dei paesi occidentali: l’ultimo esempio è quello fornito dal Regno Unito, dove i premier David Cameron ha conferito alle autorità di polizia l’autorizzazione a sequestrare i passaporti dei presunti estremisti e dove il sindaco di Londra, Boris Johnson, ha dichiarato che la strada migliore sarebbe quella di invertire l’onere della prova e considerare colpevoli a prescindere tutti i cittadini britannici che fanno ritorno da paesi come Iraq e Siria. Da presupposti diametralmente opposti parte il lavoro avviato dalla task force creata ad Aarhus allo scopo di contrastare i fenomeni di discriminazione e la radicalizzazione che in città sta provando ad aiutare 10 dei 15 cittadini tornati dalla Siria.
“Ciò che stiamo facendo è garantire loro accoglienza nel momento in cui tornano a casa – spiega ad Al Jazeera Steffen Nielsen, esperto di criminalità e membro della task force – a differenza di ciò che avviene in Gran Bretagna, dove con tutta probabilità appena arrivi ti mettono in prigione per una settimana in attesa di capire chi sei, noi diciamo a chi torna ‘Hai bisogno di aiuto?'”. La maggior parte di chi torna indietro, spiega ancora Nielsen, “ha bisogno di supporto per riprendersi da vicende terrificanti”. “Molti di loro – continua Nielsen – hanno esperito la perdita dell’innocenza e la dissoluzione delle loro strutture morali. Pensavano di andare li giù a combattere per una buona causa. Invece non hanno trovato altro che malviventi che tagliano la testa a uomini e bambini, che stuprano e uccidono. E scoprono che non stanno combattendo l’epica battaglia di libertà che avevano immaginato”.
Secondo i servizi di intelligence, sono circa 100 i cittadini danesi partiti alla volta della Siria dall’inizio della guerra,30 quelli partiti proprio da Aarhus. Un “numero significativo” di cittadini danesi, spiegano ancora i servizi, hanno “acquisito specifiche competenze in campo militare come risultato di pratiche di addestramento e partecipazione in operazioni di combattimento” che potrebbero essere usati per mettere in atto attacchi di stampo terroristico.