Nella cittadella fortificata che sovrasta Lipari, all’interno delle stanze di 36 metri quadrati in cui fino al 1915 stavano più di quaranta persone, incarcerate senza processo, ora c’è un centro permanente di arte contemporanea. Appena inaugurata, la mostra Eolie 1950/2015. Mare Motus, curata da Lea Mattarella e Lorenzo Zichichi, fa parte di un progetto biennale, finanziato con fondi europei, di cui il Museo Archeologico Luigi Bernabò Brea è promotore.
Nelle celle dell’ex carcere del castello di Lipari, i pannelli di cartongesso, messi a proteggere le pareti originali delle prigioni, sono diventati la tela su cui alcuni dei protagonisti della scena artistica internazionale hanno dipinto le loro suggestioni. “Se dovessi dipingere Lipari sceglierei il blu del mare e degli occhi delle donne, il nero, ancora per gli occhi delle siciliane, e il rosso, un po’ per via delle unghie laccate, un po’ per il sangue”, dice lo scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun. Ha dedicato la sua vita alla letteratura, ha scritto del mondo arabo e del razzismo, ha raccontato la società e l’esclusione, l’immigrazione e la marginalità. “Più i miei libri sono tristi – dice – più i miei disegni sono allegri”. Quei suoi scarabocchi, così li definisce, che da qualche anno sono opere di arte contemporanea. E che adesso sono stati accolti in una delle celle dell’ex carcere della più grande delle isole dell’arcipelago eoliano. Un’altra cella è diventata un mappamondo di vasi greci per Pietro Pizzi Cannella; un’altra ancora si è riempita di una canoa digitale in costante movimento, opera di Fabrizio Plessi. E tutto questo è solo l’anteprima di un’esposizione, già aperta al pubblico e visitabile gratuitamente, che rimarrà in dote a Lipari e che troverà la sua versione definitiva nella primavera del 2015.
A fare da contraltare a tanta contemporaneità, il Museo Archeologico Bernabò Brea, famoso per le sue pitture vascolari. E, proprio lì accanto, la cattedrale – un po’ normanna un po’ rinascimentale – dedicata a san Bartolomeo, coi suoi affreschi sulle volte a crociera e il suo chiostro col colonnato e il giardino, che si visita tutto l’anno con giusto un euro per il disturbo.
Come gli affreschi nelle prigioni, così Lipari vive di luce e tinte brillanti. C’è il rosso della porta del centro culturale islamico, in una traversa di via Garibaldi, nel pieno del centro storico. C’è il colore caldo del corallo delle scogliere più profonde del Mediterraneo, il bianco della pietra pomice e delle cave a strapiombo sulle spiagge più belle, il nero dell’ossidiana dello Stromboli, a qualche decina di minuti di navigazione. E poi ci sono i colori, gli odori e i sapori della Lipari da bere e mangiare, quella dei pescatori e delle reti cucite a mano.
“Qui si vive tre mesi d’estate, il resto del tempo si tira avanti”, sostiene con amarezza Ferdinando, che lavora in una pescheria sul porticciolo di Marina Corta. “La mia famiglia fa questo mestiere da generazioni – ricorda – Ma in barca non ci esco: soffro il mal di mare”, ride. A settembre sui banchi del pesce è periodo di ricciole. Nei ristoranti le mostrano intere, che ancora profumano di acqua salata. “Le pescano qua, vicino a Panarea e Filicudi. È un pesce azzurro, di strada ne fa”, spiega Maurizio, liparoto pure lui, col mare nel sangue. Per prenderle la tecnica è antica: “Si mettono un centinaio di ami pieni di esche dentro ai “consi”, delle ceste particolari – racconta – Nel tardo pomeriggio, si depositano in una striscia di mare, e la mattina presto si va a riprenderli”. Dentro ai “consi” pieni anche di cernie e scorfani.
“Noi abbiamo pure le aragoste”, dice Giuseppe, che su corso Vittorio Emanuele gestisce uno dei negozi di enogastronomia eoliane. “Le pigli con le “nasse”, campane di vimini in cui entrano e da cui non possono uscire. I “gamberi di nassa” sono una specialità nostrana”. Fritti, interi, oppure crudi e marinati nel limone. “Ma pure il tonno qua è buono”, aggiunge ancora Giuseppe. E ne mostra un vasetto: “Questo è sott’olio extra vergine di oliva, a pezzettoni grossi”. Il tonno lo vendono coi “cucunci”, “i boccioli dei capperi, che hanno un sapore più delicato”, dice una ragazza che lavora in un negozio di alimentari.
Le puntine, i capperi piccoli di Salina, ovviamente sotto sale, vengono via come il pane a 20 euro al chilo. Lì accanto i pomodorini secchi Igp stanno a 28 euro. “Two, two hundred”, gesticola un turista, cercando di farsi capire. Ne vuole duecento grammi. Dentro al negozio, i capperi sono “cunzati”, cioè conditi con olio, peperoncino, aglio e sale. Nei barattoli di vetro le acciughe la fanno da padrone: “anciova” rotolate coi pistacchi. Tanta tradizione e una strizzata d’occhio alla mondanità: vicino ai semi di finocchietto selvatico, sapore familiare ai siciliani, c’è una bustina di bacche di goji.
(Foto: Credits Nifosì/Il Cigno GG Edizioni 2014)
di Luisa Santangelo