Un piccolo aereo e due anni per girare l’ex-nazione più vasta dell’Africa. Il risultato è We Come as Friends, in cui uno dei maestri del documentario moderno, Hubert Sauper, racconta la divisione del Sudan, la lotta per lo sfruttamento delle risorse, il neocolonialismo occidentale, la complessità di cause, effetti, interessi che è la Storia stessa. “Non è l’ennesima denuncia dei mali dell’Africa, bensì un film che smaschera i pregiudizi del nostro modo di guardare al mondo”, spiega Sauper a ilfattoquotidiano.it.
We Come as Friends, probabile candidato agli Oscar 2015, viene proiettato al Milano Film Festival (nella sezione “Colpe di Stato”) lunedì 8 e mercoledì 10 settembre (alla presenza di Sauper). E’ un’occasione, secondo le intenzioni dello stesso regista, per vedere “un’opera d’arte che ha una motivazione profondamente politica”. Hubert Sauper, tirolese classe 1966, trapiantato da anni a Parigi, ha già nel passato raccontato storie e uomini del continente africano. Kisangani Diary seguiva il dramma dei profughi del Rwanda e Darwin’s Nightmare (anche questo in corsa per gli Oscar 2004) era la denuncia della distruzione ambientale in Tanzania.
We Come as Friends, premiato quest’anno al Sundance Film Festival, è però qualcosa di più. “E’ una metafora dell’Africa”, spiega ancora Sauper, un continente che si è apparentemente liberato dall’antico colonialismo occidentale ma che resta ancora oggi una calamita irresistibile per un’umanità diversissima: uomini d’affari alla ricerca di profitti facili, missionari cristiani, trafficanti d’armi, i leader delle grandi nazioni del mondo che cercano di fare dell’Africa la loro area di influenza e, appunto, registi con in testa l’idea di un film. “Questo slancio alla conquista è uno dei grandi miti e motivi della cultura occidentale”, racconta ancora Sauper a ilfattoquotidiano.it, poco prima della sua partenza per Milano. “Quando abbiamo esaurito la conquista del mondo, siamo partiti alla conquista dello spazio”.
Con questo mito di una frontiera continuamente da superare Sauper, nel film, gioca e si diverte. Cita Guerre stellari e si imbarca su un piccolo bimotore (costruito dal regista stesso) con cui inizia il suo viaggio per il Sudan. L’aereo, come racconta il regista, è stato utile non soltanto come metafora, ma anche come concreto strumento di viaggio. Gli ha infatti concesso di arrivare dove l’assenza di strade e vie di comunicazione non gli avrebbe permesso di arrivare; e soprattutto è servito come un modo per familiarizzare con le popolazioni locali. “Mi vedevano scendere da questo piccolo aereo e subito venivano da me e mi facevano domande”, racconta.
Con il suo aereo, Sauper/Captain Kirk (ma anche un po’ Candide, per l’apparente ingenuità con cui il regista fa domande e si informa) passa da un luogo all’altro di questo angolo d’Africa, colto in un momento centrale della sua storia: quello del referendum del 2011 e della separazione del Sud Sudan, prevalentemente cristiano, dal Sudan a maggioranza musulmana. Il regista incontra storie e personaggi apparentemente diversissimi. Ci sono i cristiani evangelici americani arrivati in Sud Sudan per spiegare il Vangelo, che frustano i bambini che non si coprono ma che poi non riescono a spiegargli il senso del passo della Genesi in cui Adamo ed Eva sono “nudi ma senza vergogna”. Ci sono i dipendenti cinesi di una compagnia petrolifera – la Repubblica popolare è uno degli attori più attivi nello sfruttamento delle risorse in Africa, con il governo di Pechino che ha sostenuto con energia il presidente sudanese accusato di genocidio al-Bashir -; lavoratori che vivono barricati dentro il loro compound e che spiegano che “la protezione dell’ambiente non è un problema nostro”.
E ci sono soprattutto le grandi società occidentali in lotta per lo sfruttamento delle enormi risorse petrolifere e naturali del Sud Sudan, che si incontrano alle Conferenze per gli Investitori spiegando che “il Sud Sudan va aiutato” (con sullo sfondo una televisione che rimanda un’intervista all’ex- segretario di stato Usa Hillary Clinton, secondo cui “gli africani godranno enormi benefici” dagli investimenti stranieri); intanto però Sauper ci mostra comunità senza più acqua potabile, infiltrata nelle operazioni di estrazione del petrolio, e vecchi capi di comunità locali che concedono alle società occidentali lo sfruttamento di 600 mila ettari di terra per 25 mila dollari.
Tutti, oggi come ieri, dicono di venire in Sudan e in Africa “come amici”, per favorire vita e benessere delle comunità locali. E “come un amico” dice di arrivare lo stesso regista, che diventa un personaggio di questa grande corsa all’Africa e che non si tira fuori dalle responsabilità collettive di fronte alla spoliazione e alla conquista di un intero continente. Documentario di straordinaria bellezza visiva, We Come as Friends è un viaggio che conduce lo spettatore da un episodio all’altro, da un personaggio all’altro, senza la volontà esibita di giudicare ma soltanto di mostrare.
Il puzzle che si compone in modo leggero e apparentemente casuale sotto gli occhi dello spettatore è però alla fine devastante e pessimistico: l’imperialismo continua a vivere, in altre forme e modi. “Spero comunque si sia trattato di un viaggio degno di essere intrapreso – conclude Hubert Sauper – Questo è del resto il senso dell’arte e del cinema come lo intendo: smascherare le certezze, cercare pensare ai grandi problemi mondiali sotto un’altra prospettiva”.