Il presidente del Consiglio Matteo Renzi è disposto a giocarsi le prossime elezioni per portare a casa la riforma del lavoro? La domanda serpeggia da quando, nei giorni scorsi, il premier ha indicato nella ricetta tedesca il modello “da imitare” per rivoluzionare il mercato del lavoro italiano ormai ai minimi termini. Perché la riforma tedesca, avviata Gerhard Schröder nei difficili anni del post-riunificazione, è costata cara all’allora cancelliere del Partito Socialdemocratico uscito poi sconfitto dalle elezioni del 2005. Ecco com’è andata.
“Abbiamo iniziato a fare la riforma nel 2000, è stato molto doloroso e in parte autodistruttivo per alcuni partiti politici, ma era necessario per il Paese”, ricorda a ilfattoquotidiano.it l’attuale segretario di Stato del ministero del Lavoro tedesco, Jörg Asmussen ospite al Forum Ambrosetti di Cernobbio. “Ma credo che oggi dobbiamo essere orgogliosi di uno sforzo che adesso restituisce i suoi frutti: abbiamo un tasso di occupazione da record. E l’abbiamo ottenuto attraverso uno sforzo collettivo, ma molto costruttivo, di sindacati, imprese e molti governi di diverso colore”.
Renzi sarà abbastanza coraggioso da prendersi il rischio? L’ex membro del comitato esecutivo della Bce non si sbilancia, ma ha le idee molto chiare sulla strada da seguire: “La leadership si dimostra quando si guarda ai problemi del Paese, si vagliano le soluzioni possibili e si lotta per portare avanti le scelte migliori, spiegando pubblicamente ai cittadini i pro e i contro delle decisioni prese. Non quando si guarda ai sondaggi e si pensa al risultato elettorale”, sottolinea. Più scettico sulla possibilità che l’Italia possa seguire la Germania il presidente dell’Agenzia Federale per il Lavoro, Frank-Jurgen Weise: “Una nazione libera deve disegnare il suo modello in base al contesto. Non bisogna dimenticare che prima del 2005 la Germania era il grande malato d’Europa – precisa a ilfattoquotidiano.it a margine di uno degli incontri dell’Ambrosetti–. La nostra riforma è stata il frutto della nostra cultura: con un obiettivo comune sindacati lavoratori e imprenditori hanno lottato insieme contro la disoccupazione seguendo lo stesso modello. Non sono sicuro che possa funzionare anche per l’Italia”. Di una cosa però è certo: “I politici devono fare le cose che vanno fatte. E’ noto che il risultato elettorale del 2005 sarebbe stato uno dei nodi quando abbiamo affrontato la riforma, ma la nostra è una storia a lieto fine: dopo un po’ i socialdemocratici sono tornati al governo. Del resto la situazione era disastrosa dopo la riunificazione e Schröder non aveva scelta”.
E se questo è lo scotto da pagare per i politici, qual è quello che attende i cittadini se la via scelta sarà davvero quella tedesca? Innanzitutto, precisa Asmussen, la strada non è lastricata di soli “sacrifici, ma anche di opportunità”. La nota dolente, però, è ben nota anche in nord Europa: “Voi avete da tempo un mercato del lavoro a due binari: chi è dentro è tutelatissimo, chi è fuori no. Ad esempio per i giovani è estremamente difficile entrarvi, bisogna quindi rendere loro l’accesso più facile e creare un nuovo bilanciamento tra le sicurezze di chi è dentro e l’agevolazione dell’ingresso sul mercato”. E qui entra in gioco la famigerata flessibilità, che in Germania non si traduce però nel modo in cui la vorrebbero molti imprenditori italiani. “Noi non intendiamo la flessibilità nel senso anglosassone di poter licenziare la gente quando si vuole, bensì in termini di numero di ore lavorate”, spiega Asmussen, riportando una posizione, questa sì, che a parole coincide con quella dell’esecutivo.
Il modello è molto lineare. “Magari sei pagato parzialmente, ma sei sicuro di mantenere il posto di lavoro. Mentre le ore di lavoro possono arrivare fino a zero per periodi molto limitati, il dipendente mantiene comunque il 60% della paga e nel frattempo riceve formazione”. La flessibilità, insomma, è nel numero di ore che si adeguano alla situazione economica del momento. Dal punto di vista delle tipologie contrattuali, invece, la regola prevede che un contratto a tempo determinato possa durare due anni e sia rinnovabile due volte “senza causale”. Dopo di che il lavoratore non matura il diritto all’assunzione a tempo indeterminato, “l’azienda è libera di non assumere, il rischio c’è. Ma se ti tengono”, aggiunge Asmussen, “ti spetta un contratto stabile”.
Ma come fanno a campare i titolari dei famigerati mini job da 450 euro al mese, per fortuna esentasse, che riguardano 7 milioni di cittadini tedeschi? “Se non guadagni abbastanza per vivere a livelli dignitosi il resto te lo dà lo Stato integrando lo stipendio: un principio garantito dalla nostra Costituzione“, spiega. Il valore dello strumento, invece, lo chiarisce Weise: “Serve un bilanciamento tra flessibilità e precariato – dice – e i mini job sono una via per abbassare le barriere di ingresso al mondo del lavoro, per restituire alla persona la capacità di spesa e una sicurezza minima. E’ una spesa aggiuntiva per noi, ma l’ingranaggio con essi è ripartito”. La “spesa aggiuntiva” per l’ammortizzatore sociale tedesco arriva da un contributo assicurativo del 3% sui salari che viene pagato per metà dalle imprese e per l’altra dai lavoratori. Della gestione del denaro si occupa l’Agenzia Federale del Lavoro, un sistema che con la riforma è stato unificato e centralizzato e tocca capillarmente il territorio con un migliaio di centri per l’impiego. “Oggi il budget che deriva dai sindacati, dalle imprese e dal fondo tasse, mi permette di muovermi in tutto il Paese con un’unica struttura e la medesima qualità – rivendica Weise -. Con il risultato di avere molti soldi da investire a livello decentralizzato per coprire la domanda locale. Per le aziende, ma anche per i singoli individui. La regola è che la politica mi dice cosa fare, mentre come farlo è mia responsabilità”.
Ruolo chiave anche per i sindacati e la contrattazione collettiva che i tedeschi non hanno affatto accantonato, garantisce Asmussen: “Abbiamo accordi di contrattazione collettiva a livello di settore nei quali sono state inserite delle deroghe per affrontare specifiche situazioni. Quindi c’è sempre un contratto collettivo, la negoziazione non è totalmente decentralizzata a livello aziendale”. Come ci si è arrivati? “So che il decentramento della contrattazione è un tema forte in italia. In Germania c’è stato un accordo con i sindacati che hanno raccolto l’offerta della politica. Ora c’è un altissimo tasso di occupazione e i sindacati tedeschi possono dire che il precariato funziona”, è la versione di Weise. Insomma, riassume Michael Burda, professore di Macroeconomia e Lavoro alla Humboldt University di Berlino: “C’è bisogno di fiducia reciproca e di pazienza: in 3-5 anni i risultati si vedranno”.
Già, ma intanto il pensiero corre agli stipendi che si potrebbero assottigliare. “Non necessariamente: se alzi la produttività allora il salario può salire. Questa è la strada migliore: bisogna lavorarci giorno dopo giorno. Non è un risultato che possa essere raggiunto con la politica monetaria”, chiosa Asmussen ricollegandosi così al ruolo della Banca Centrale europea di Mario Draghi che sta puntando il dito proprio sulle riforme strutturali ormai improcrastinabili. Tanto da esortare i Paesi d’Europa a cedere un po’ di sovranità su questo fronte per arrivare a un risultato. Un invito che il ministro italiano dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ha già raccolto con l’obiettivo di condividere il progetto di un “growth compact” con i suoi colleghi europei che parteciperanno al prossimo Ecofin in calendario per venerdì a Milano. “Ci vuole cooperazione a livello europeo per innescarela poi a livello dei singoli Paesi membri in tutte le tre aree: fiscale, monetaria e di riforme strutturali. C’è bisogno di tutto insieme. La Bce non può risolvere i problemi da sola”, conclude Asmussen, che non ha evidentemente smesso di sostenere Draghi